Rubrica

Arte, Storia & Cultura

Share

Luoghi

Il santuario del Moletto a Limonta, affacciato sul lago

Una chiesetta del Seicento, minuscola ma riccamente affrescata, che sorge in un luogo idilliaco, sulla Costiera degli oliveti, nel versante occidentale del ramo lecchese del Lario. Che per quasi mille anni fu feudo dei monaci di Sant'Ambrogio a Milano

di Luca FRIGERIO

20 Agosto 2023

Si diceva che l’avesse fatto per mettere pace tra i contendenti dei borghi confinanti: beghe di paese che spesso si trascinano per anni, con esiti funesti. Altri, invece, spiegavano che aveva voluto consacrare al nome di Maria un luogo che, secondo le voci popolari, anticamente era stato oggetto di pagane superstizioni. Ma noi siamo convinti che padre Roberto Rusca abbia voluto creare un santuario in questo incantevole luogo perché, prima di tutto, era un uomo di Dio amante del bello: guardava lo spettacolo della natura attorno a lui, l’ampiezza e la forza del paesaggio del lago, e gli veniva spontaneo lodare il Creatore per tanta meraviglia… Fino al giorno, appunto, in cui decise di costruire proprio qui una nuova cappella.

Rusca era un monaco dell’ordine cistercense, storico e letterato, milanese d’origine, e quando i suoi superiori lo inviarono a Limonta, sulla sponda occidentale del ramo lecchese del Lario, aveva 40 anni. Era il 1605 e da otto secoli questi territori erano stati concessi al monastero di Sant’Ambrogio: sulla tomba del santo patrono di Milano, infatti, dall’epoca carolingia ardeva nelle lampade l’olio che veniva prodotto quassù, nella Costiera degli oliveti, come ancora si chiama questa zona, sebbene oggi le piante d’ulivo siano diventate meno numerose d’un tempo.

La casa sulla roccia

Evangelicamente padre Roberto cominciò a costruire sulla roccia: un piccolo oratorio, appena quattro metri per sette, affacciato a strapiombo sul lago, così da essere ben visibile a tutti coloro che in barca ne solcavano le acque, ma anche a quanti, contadini, pastori o viandanti, percorrevano ogni giorno i sentieri più in alto sulle pendici del monte Garnasca, andando o tornando da Bellagio. E siccome i cistercensi, secondo l’insegnamento di san Bernardo di Chiaravalle, hanno sempre dimostrato uno spiccato amore filiale per la Madre di Dio, il monaco volle dedicare la nuova chiesetta proprio alla Madonna.

In pochi anni la cappella divenne un punto di riferimento per gli abitanti della zona. Avvenivano miracoli e prodigi: la conversione dei cuori e delle anime, prima ancora che la guarigione delle membra. Lo stesso Rusca, allora, attorno al 1620, pose mano ad ampliare il santuario, aggiungendo sopra l’originario sacello un secondo ambiente, più ampio, ma sempre di dimensioni contenute: nulla di trionfale, niente di esagerato, ma una sorta di rifugio a «due piani», dove sentirsi accolti e protetti, con lo sguardo che si riempie di luce, spaziando sul lago e sui monti attorno.

La decorazione ad affresco di questo nuovo spazio avvenne negli anni Quaranta del XVII secolo. Per l’impresa furono chiamati due pittori di sicuro mestiere: i fratelli Giovan Battista e Giovan Paolo Recchi, comaschi, all’epoca assai attivi tra Varese e Lecco, ma anche nel Piemonte sabaudo. Allievi di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, i Recchi ne continuarono lo stile e i modi, con una pittura piacevole e non priva di eleganza, vivace nella colorazione e animata nel segno: avendo Battista, il maggiore, il ruolo di capobottega, ma dimostrando Paolo, più giovane di quasi un ventennio, miglior talento e fantasia più sciolta (soprattutto nella resa di quelle figure dall’aria, al contempo, sbarazzina e angelica).

Sulle pareti, così, ecco dipanarsi le sequenze della vita della Vergine, dalla Presentazione al Tempio all’Assunzione, incrociandosi naturalmente con il mistero dell’Incarnazione del Verbo (Natività e Adorazione dei Magi, Circoncisione di Gesù): sull’altare, significativamente, vi è illustrato l’episodio dell’Annunciazione, a cui il santuario stesso è intitolato, con Maria che accoglie l’arcangelo Gabriele pronunciando il suo «Eccomi» e permettendo così, con la sua docilità alla volontà divina, l’ingresso della Salvezza nella storia degli uomini. Gustosi alcuni dettagli di vita domestica che si intravedono nell’inquadratura: come la sedia impagliata, il cesto con i panni, l’arcolaio, il gatto che gioca con il gomitolo di lana…

Sant’Ambrogio, il patrono

Sulla controfacciata, invece, notiamo una scena piuttosto impressionante: un vescovo con il piviale al vento galoppa su un bianco destriero agitando il flagello e mettendo in fuga degli uomini armati. Si tratta di sant’Ambrogio, così come apparve, secondo la tradizione, durante la battaglia di Parabiago, il 21 febbraio 1339, guidando i milanesi alla vittoria contro le truppe mercenarie degli “svizzeri”: un fatto storico cruciale per il consolidamento del potere dei Visconti a Milano e quindi a lungo celebrato dai signori del Biscione. Anche se qui, i “lanzichenecchi” appaiono vestiti alla turca e con i turbanti: a ricordare che all’epoca la minaccia ottomana arrivava fino alle porte dell’Europa…

San Carlo Borromeo, tuttavia, cercò di eliminare questa iconografia “politica” e bellicosa del suo santo predecessore, perché leggendaria e perché poco consona al ruolo di padre e pastore del vescovo Ambrogio, ma evidentemente senza troppo successo… Bisogna ricordare, del resto, che proprio i cistercensi erano i custodi del santuario della Vittoria a Parabiago, e quindi particolarmente legati a questa particolare raffigurazione, ripresa qui a Limonta dove i monaci ambrosiani erano presenti, come si è detto, da lungo tempo.

Una brezza leggera muove le fronde degli alberi, e pare una carezza sul nostro viso. Così che ci immaginiamo che sia la mano stessa della Vergine, la Madonna del Moletto di Limonta, a sfiorarci e benedirci, nell’ora del Vespero.