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Arte, Storia & Cultura

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Riscoperte

Il Dittico delle Cinque Parti, un tesoro restaurato del Duomo di Milano

Si tratta della magnifica “copertura” in avorio dell’evangeliario, databile alla fine del V secolo. Oggi questo straordinario capolavoro paleocristiano, che fa parte della storia e della tradizione della Cattedrale ambrosiana e che è custodito nel Museo del Duomo di Milano, è stato interamente restaurato.

di Luca Frigerio

16 Marzo 2023

È uno dei primi oggetti che il visitatore incontra nel Museo del Duomo di Milano, e nel suo vasto catalogo è il primo pezzo in assoluto a essere presentato. Un primato che non sorprende, se si considera l’antichità, la bellezza, l’importanza e il valore del cosiddetto «Dittico delle cinque parti», cioè la coperta di evangeliario in avorio, databile alla seconda metà del V secolo, che da tempo immemore fa parte del Tesoro della Cattedrale ambrosiana, protagonista di riti e celebrazioni. Uno straordinario capolavoro che oggi è stato accuratamente restaurato, fornendo agli studiosi informazioni e dettagli fino ad oggi sconosciuti.

Le indagini e le ricerche effettuato su questa eccezionale testimonianza dell’arte paleocristiana saranno illustrate lunedì 20 marzo, presso la chiesa di San Gottardo in Corte, nel corso di un incontro riservato, nel quale verrà presentato anche il nuovo volume realizzato sulla scorta di quest’ultimo intervento. Ma tutti, naturalmente, dai prossimi giorni potranno tornare ad ammirare il prezioso «Dittico» nel Museo del Duomo, che per livello qualitativo e complessità iconografica ha ben pochi paragoni nella produzione tardoantica.

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Secondo l’uso liturgico medievale, le due antiche tavole eburnee rivestivano il libro dei vangeli, cioè quell’«evangeliario» che raccoglie le pericopi evangeliche proclamate nella prima parte della celebrazione eucaristica, considerato quindi, come osserva monsignor Marco Navoni (neoprefetto della Biblioteca Ambrosiana), «non tanto come un oggetto per la celebrazione del culto, quanto piuttosto esso stesso come un oggetto di culto, dal momento che simbolicamente richiamava (e richiama) la presenza stessa di Cristo, la Parola incarnata del Padre».

Anche le teche e le legature degli evangeliari stessi, dunque, assumevano un ruolo e un aspetto di particolare rilevanza, paragonate a dei «tabernacoli» destinati a custodire e a proteggere la Parola. Come testimoniato, ad esempio, da Beroldo (il cicindelarius, cioè il custode della sacrestia) che nel XII secolo descrive le cerimonie della liturgia ambrosiana nella cattedrale di Milano, facendo riferimento anche all’uso di «tavole d’avorio» che potrebbero corrispondere proprio al «Dittico» oggi restaurato.

Proprio la sua importanza, del resto, ha sempre messo questo’opera al centro dell’attenzione degli studiosi. Che, in passato, l’hanno assegnata all’epoca di Ambrogio e poi, più correttamente, al secolo successivo. Ipotizzando una provenienza da Roma (ovvero il centro più raffinato per simili produzioni artistiche), ma anche il lavoro di una bottega di Milano (negli anni in cui la città era capitale dell’impero d’Occidente); senza scartare la possibilità di una nascita orientale (a Costantinopoli, per la precisione), soprattutto per alcune caratteristiche iconografiche. Attualmente, anche alla luce delle analisi più recenti, si è individuata Ravenna come luogo d’origine più plausibile per questo manufatto di altissima qualità, con il conforto di puntuali confronti stilistici. Dove alla lavorazione sontuosa dell’avorio si unisce anche quella raffinatissima d’oreficeria, con inserti in argento dorato, paste vitree, pietre e perle: con la presenza, su una faccia, dell’«Agnus Dei», sull’altra della «Croce gloriosa».

Le «cinque parti» del «Dittico» si riferiscono proprio alle placche d’avorio che costituiscono ciascuna delle due tavole, che recano raffigurazioni simboliche ed episodi sacri, ispirati ai vangeli canonici, ma anche a quelli apocrifi (come, ad esempio, per l’insolita rappresentazione dell’«Annunciazione», dove Maria è avvicinata dall’arcangelo Gabriele mentre raccoglie l’acqua a una fonte, secondo il racconto del protovangelo di Giacomo).

Con dettagli sorprendenti e gustosi, che si scoprono via via nell’attenta osservazione delle varie scene. Come la sega accanto ai piedi di Giuseppe, a rivelarne la professione di falegname. Come le «braghe» e i berretti frigi dei Magi, secondo la moda «persiana». Come la «bacchetta» (la virga) in mano a Gesù, alle nozze di Cana e nella risurrezione di Lazzaro, segno della potenza divina. Insieme a situazioni di espressivo realismo, come la feroce violenza dei soldati di Erode o le vivaci reazioni di quanti sono improvvisamente risanati dal Cristo.

E altri elementi ancora restano da indagare. Come il reale significato dell’inserimento, in un certo contesto, di alcune scene (ad esempio l’«Obolo della vedova», dove ci si aspetterebbe le «Pie donne al sepolcro»…). O una più precisa datazione dell’avorio, che sarà offerta dall’analisi al carbonio 14, ancora in corso.

Ma l’aspetto forse più commovente e più emozionante di questo capolavoro, è proprio nell’usura di alcune sue parti: bordi, cornici, volti dove per secoli e secoli si sono posate mani e labbra devote, a venerare la Parola vivente.