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E gli altri?

Tra ferite aperte e gemiti inascoltati: forse un grido, forse un cantico

6 Dicembre 2022

Introduzione

Questo discorso, chiamato solennemente “discorso alla città”, è l’intervento più istituzionale dell’Arcivescovo di Milano, grazie all’impegno che hanno profuso i grandi Arcivescovi che mi hanno preceduto e grazie all’attenzione che gli uomini e le donne delle istituzioni hanno rivolto a quegli interventi. È un momento istituzionale. Eppure non posso trattenermi da una confidenza personale.

Con il passare degli anni trovo sempre più insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo irrespirabile l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità e risentimento.

Perciò anche in questo momento solenne e in questa congiuntura singolare io vorrei dire le parole che mi sono più congeniali e condividere i sentimenti più profondi. Vorrei dire che il linguaggio di Milano e di questa nostra terra è la fierezza di poter affrontare le sfide, è la generosità nell’accogliere e nel condividere, è la saggezza pensosa che di fronte alle domande cerca le risposte, è la franchezza nell’approvare e nel dissentire, è la compassione che non si accontenta di elemosine ma crea soluzioni, stimola a darsi da fare, inventa e mantiene istituzioni per farsi carico dei più fragili.

Milano e la gente che abita in questo territorio non si stupirà se metto nel titolo di questo discorso un punto di domanda: perché voglio fare l’elogio dell’inquietudine, voglio condividere l’aspetto promettente di un realismo che custodisce la speranza e che crede nella democrazia e nella vocazione della politica.

 Lettura del Libro dei Re (1Re 3,5-9)

A Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Tu hai trattato il tuo servo Davide, mio padre, con grande amore, perché egli aveva camminato davanti a te con fedeltà, con giustizia e con cuore retto verso di te. Tu gli hai conservato questo grande amore e gli hai dato un figlio che siede sul suo trono, come avviene oggi. Ora, Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?»

 Ambrogio, I doveri, III, 3 (SAEMO, 13, 287)

[23] Che cos’è tanto contrario alla natura quanto offendere un altro per il proprio interesse? Eppure il sentimento naturale ci suggerisce di vegliare su tutti, di affrontare noie e sopportare fatiche per tutti; e si considera per ciascuno motivo di lode procurare con proprio rischio la tranquillità di tutti; e ognuno ritiene cosa di gran lunga preferibile aver scongiurato la rovina della patria che l’aver trascorso, lontano dagli affari, una vita tranquilla in mezzo ai piaceri.

[45] … ma anche quelli che escludono i forestieri dalla città non meritano certo approvazione.

Ciò significa cacciarli proprio quando si dovrebbero aiutare, impedire loro i rapporti con la madre comune, rifiutare loro i frutti che la terra produce per tutti, troncare le relazioni di vita già iniziate, non voler dividere in tempo di necessità le risorse con quelli con i quali furono comuni i diritti.

[46] Agì assai meglio quell’anziano che, siccome i cittadini soffrivano la fame e da ogni parte si chiedeva, come suole avvenire in tali frangenti, l’allontanamento dei forestieri, forte della sua responsabilità maggiore quale prefetto della città, convocò gli uomini più autorevoli e ricchi e chiese loro di prendere immediatamente una decisione dichiarando mostruoso il fatto che i forestieri venissero scacciati, disumano chi rifiutava il cibo a un moribondo. Non sopportiamo che i cani siano digiuni mentre mangiamo e scacciamo gli uomini.

[51] Nulla c’è di così conveniente ed onesto che aiutare i poveri con le offerte raccolte tra i ricchi, distribuire viveri agli affamati, assicurare a tutti il cibo. Nulla c’è di così utile come conservare i coltivatori al loro campo e impedire che il popolo dei contadini perisca.

[52] Ciò che è onesto, dunque, è utile; e ciò che è utile, onesto. E, al contrario, ciò che non è utile è sconveniente; e ciò che è sconveniente non è utile.

Elogio dell’inquietudine

Se si continua così, che cosa resterà di Milano?

Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte della paura.

La paura serpeggia nella città e nella nostra terra: è la paura di difficoltà reali che si devono affrontare e non si sa come; è la paura indotta dalle notizie organizzate per deprimere, per guadagnare consenso verso scelte d’emergenza, senza una visione lungimirante; è la paura dell’ignoto; è la paura del futuro. La paura induce a chiudersi in sé stessi, a costruire mura di protezione per arginare pericoli e nemici, ad accumulare e ad affannarsi per mettere al sicuro quello di cui potremmo aver bisogno, “non si sa mai”.

Alle porte della paura bussa l’inquietudine con la sua provocazione: e gli altri?

L’antico segno della civiltà imponeva un criterio: “prima le donne e i bambini”, cioè: prima devono essere messi in salvo quelli che non possono salvarsi da soli. Si è smarrito il segno della civiltà?

Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte dei sogni che la città coltiva e realizza, la città che corre, la città che riqualifica quartieri e palazzi, la città che fa spazio all’innovazione e all’eccellenza, la città che seduce i turisti e gli uomini d’affari, la città che demolisce le case popolari e costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili.

Alle porte della città bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri?

Dove troveranno casa le famiglie giovani, il futuro della città? Dove troveranno casa coloro che in città devono lavorare, studiare, invecchiare?

Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte dei centri di ricerca dedicati all’organizzazione del lavoro che controlla la produttività e ignora gli orari della famiglia, che controlla l’ottimizzazione delle risorse e ignora la qualità di vita delle persone, che prepara strumenti per valutare la sostenibilità ambientale e ritiene secondaria la sostenibilità sociale.

Alle porte dell’organizzazione del lavoro bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri?

Come potranno vivere quegli onesti lavoratori che si ritrovano a fine mese una paga che non copre le spese che la vita urbana impone loro?

Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa ai palazzi dove si decidono i rapporti con gli altri Stati e si decidono le misure da adottare per gestire i destini dei popoli e i fenomeni migratori per rassicurare i cittadini e ridurre i fastidi.

Ai palazzi del potere bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri?

Come si può giustificare un sistema di vita che pretende il proprio benessere a spese delle risorse altrui? Come si può immaginare una civiltà che si chiude e muore e lascia morire popoli pieni di vita?

Faccio l’elogio dell’inquietudine perché mi faccio voce della comunità cristiana, della tradizione europea e italiana, della lungimiranza sui destini della civiltà occidentale e, d’altra parte, non ho la pretesa di giudicare sbrigativamente o di disporre di ricette risolutive. Elogio l’inquietudine perché pensieri, decisioni, interventi siano attenti alla complessità e là dove sembra produttivo e popolare essere sbrigativi e semplicisti, istintivi e presuntuosi, l’inquietudine suggerisca saggezza e disponibilità al confronto, studio approfondito e concertazione ampia, per quanto possibile.

Elogio del realismo della speranza

Se sapete di una promessa, perché vi disperate?

L’inquietudine non è un’inclinazione depressiva che può paralizzare il pensiero e l’azione nell’incertezza e nello scontento. È piuttosto un rimedio per contrastare la soddisfazione narcisista che si assesta in un egocentrismo rovinoso. Il confronto con “gli altri”, l’ascolto del gemito, la costruzione di rapporti fondati sulla stima, sull’attenzione, sulla riconoscenza, sono fattori di quell’umanesimo realista che rende desiderabili la convivenza civile e i rapporti tra i popoli.

L’inquietudine e il realismo sono le tracce della speranza che è stata seminata nella vicenda umana.

Infatti, senza una speranza non si può vivere né si può desiderare di generare vita, di costruire il futuro, di sostenere le fatiche e di celebrare le feste.

La speranza non è un’ingenuità consolatoria, è piuttosto la risposta alla promessa che chiama a desiderare la vita, la vita buona, la vita nella pace, la vita dono di Dio. La gente seria pratica la speranza e accoglie la promessa perché è consapevole del proprio limite radicale, dell’impossibilità dell’autosufficienza e, d’altra parte, non può ammettere l’abbandono dell’impegno o l’immergersi in un ottuso attivismo.

La speranza autentica propizia non tanto il futuro (ricercato e voluto con l’ottimismo dell’esito) quanto l’avvenire (atteso e desiderato con la speranza di un senso e di un significato). Non ricerca l’im-munità (come difesa dall’altro), ma la co-munità (come difesa dell’altro).

Voglio perciò fare l’elogio del realismo della speranza che risponde all’annuncio di una promessa. Opera, infatti, nella storia la provvidenza di Dio che è promessa di vita, di vita buona, di vita eterna. La speranza non si costruisce sulle proiezioni delle statistiche, sulle previsioni degli intellettuali, sulle ideologie. C’è una parola affidabile che rivela che la vita è promettente, che non siamo destinati al nulla, che non siamo una presenza insensata in un universo insensato, ma siamo persone uniche, con una originalità irripetibile, con una vocazione che ci autorizza ad avere stima di noi stessi e ci chiama a mettere a frutto i talenti ricevuti per il bene di tutti.

E la promessa che autorizza la speranza giunge a noi in molti modi: nel silenzio della meditazione, nell’evento che ci provoca, nelle Scritture che interpretano la storia e annunciano la terra promessa verso la quale l’umanità può incamminarsi. Spesso l’annuncio della promessa sono gli altri, le persone che vivono con noi, le persone che ci vogliono bene, le persone che la vita ci fa incontrare e che sono come messaggeri di insospettate possibilità.

Il realismo della speranza ama sostare in preghiera e in silenzio, resiste alla tentazione della superficialità e della fretta, percorre la via della sincerità, evita le maschere, il conformismo, la viltà. Abbiamo bisogno di praticare una spiritualità in cui venga alla coscienza la verità di noi stessi, degli altri, di Dio. 

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che riconosce la vocazione alla fraternità iscritta in ogni vita umana. Il realismo della speranza smaschera l’illusione dell’individualismo, forse la radice più profonda dell’infelicità del nostro tempo.

L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune.

(Papa Francesco, Fratelli tutti, 105)

Un essere umano è fatto in modo tale che non si
realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza «se non attraverso un dono sincero di sé». E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri.

(Papa Francesco, Fratelli tutti, 87)

La vocazione alla fraternità è la condizione di sopravvivenza dell’umanità e costruisce progetti di futuro perché condivide la fiducia che la vita sia creata da una promessa. Infatti, la solidarietà, pur decisiva nel nostro tempo, è il principio di organizzazione sociale che consente ai diversi di diventare uguali; mentre la fraternità è il principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di essere diversi, cioè unici e irripetibili.

Il realismo della speranza rende desiderabile che continuino a nascere da un papà e da una mamma bambini e bambine, che siano circondati da ogni cura e introdotti nella vita come promessa di futuro.

Si può comprendere così che una mentalità individualistica che censura la speranza sia tra le ragioni profonde della crisi demografica che invecchia la nostra società.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che consente di affrontare l’emergenza educativa, il disagio delle giovani generazioni evitando di ridurre il tema in limiti troppo angusti.

C’è infatti il rischio che il linguaggio dell’emergenza suggerisca di cercare rimedi in interventi specialistici, in supporti farmacologici, in richiami moralistici.

Più che di emergenza e di disagio si deve forse parlare di una invocazione che le giovani generazioni ci rivolgono: «Dateci buone ragioni per diventare adulti! Testimoniate che vale la pena di assumere responsabilità, di mettere a frutto le proprie capacità. Dateci motivi per credere che sia possibile vivere rapporti di amore, stabili e appassionati alla promessa di generare figli e figlie».

La responsabilità degli adulti è e diventa quella di praticare il realismo della speranza. Non si deve certo sottovalutare il contributo che possono offrire le competenze specialistiche per affrontare le difficoltà che incontrano gli adolescenti. Ma è decisivo che i genitori, gli insegnanti, gli educatori delle nostre comunità siano adulti che, in rapporto con questi “altri” che sono le giovani generazioni, sappiano testimoniare che vale la pena diventare adulti, essere padri e madri, assumere responsabilità nella professione e nella vita sociale.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che consente di affrontare la tutela della salute e il prendersi cura nelle situazioni limite della malattia. Vi è un’attesa quasi onnipotente della vita, nella dis-attesa della morte (rimossa). Pure nella complessità, nella frammentazione e nella frammentarietà del vivere postmoderno, il come è altamente presidiato e coltivato. È più fragile la dimensione del dove della cura, soprattutto nella malattia cronica, degenerativa e irreversibile. Essa appare sempre più come un non luogo: la malattia cronica è come consegnata al suo destino di irreversibilità e di contingenza. La cura si fa incerta, tra i confini del curabile e del (non) guaribile. Il perché resta nel rumore silenzioso del proprio dolore e della propria sofferenza. La dimensione della cura, del prendersi cura e del farsi carico si rivolgono alla persona (e non solo alla malattia o al malato); la dimensione della malattia non è solo un evento clinico (del come e del dove), bensì è un evento esistenziale (dice del perché).

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza per incoraggiare la riflessione e la pratica di quei tratti che caratterizzano la nostra città, il nostro territorio. Il sistema produttivo, le qualità dell’imprenditoria, l’eccellenza dei prodotti, sono motivi di fierezza e meriti riconosciuti. Dalla bottega dei nonni agli orizzonti del mercato globale il cammino è stato impegnativo, è costato sacrifici, ha rivelato intelligenza e intraprendenza, si è giovato di forme di associazione tra imprese. In questa avventura è avvenuto l’incontro con tanti “altri”: altre persone e altri modi di pensare, altri Paesi e altri modi di vivere, altri regimi politici e fiscali, altre organizzazioni economiche. È risultata così evidente l’interdipendenza tra persone e sistemi.

Il realismo della speranza convince a costruire rapporti che non si limitino al dare e all’avere, al vendere e al comprare, ma diventino alleanze, interesse per il bene reciproco, rispetto per tutti gli ambienti, onore per tutte le culture. Le esperienze disastrose delle guerre convincono dell’assurdità dei conflitti e dell’insensatezza di considerare nemiche persone con cui si è lavorato e collaborato in modo così costruttivo. Le esperienze disastrose di imprese di rapina che saccheggiano territori e riducono popoli in condizioni di schiavitù e di miseria devono suscitare una opposizione determinata dalla persuasione che o si cresce insieme o si perisce tutti.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza per incoraggiare il pensiero e l’azione a interpretare la vocazione della nostra terra alla solidarietà. In molti modi le risorse sono state condivise: il tempo è diventato dono per il volontariato, le risorse economiche sono diventate supporto per opere di carità, gli spazi sono diventati luoghi per accogliere. È necessario però riconoscere ed evitare di praticare la “generosità del superfluo” o “degli avanzi”. Soprattutto in un settore che vede tutti impegnati in modo diretto e prioritario: l’assistenza ai fragili e la cura dei sofferenti. La gran parte delle risorse delle nostre istituzioni è investita in questo settore. Forme diffuse di neoliberismo nelle trame di potentati imprenditoriali e dei poteri finanziari si ammantano di paternalismo generoso e di ostentata filantropia e perpetuano un regime di iniquità, la subordinazione umiliante di tanti, una cronica dipendenza dai privilegiati, dai forti, dai potenti.

Il realismo della speranza incoraggia a sentirsi più profondamente un “popolo in cammino”, che pratica la solidarietà non come un’appendice lodevole dell’economia, ma come un principio rivoluzionario del sistema economico. Di fronte alla crescente divaricazione tra ricchi e poveri non può bastare qualche volonterosa protesta: è necessario sperare insieme con realismo un mondo giusto e mettere mano all’impresa di costruirlo.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che interpreta i rapporti tra le nazioni come condizione necessaria per rendere abitabile il pianeta e promettente il futuro. La storia che viviamo sembra offrire ragioni per scoraggiare aspettative di pace, l’avidità e la menzogna muovono all’aggressività, scatenano guerre, seminano odio e distruzione. Non possiamo lasciarci rubare la speranza: crediamo alla promessa della vocazione alla fraternità di tutti gli abitanti del pianeta. Non possiamo rinunciare al
realismo: percorriamo e incoraggiamo a percorrere le vie della diplomazia, della preghiera, della reazione popolare alla guerra, agli affari sporchi che la guerra favorisce. Non possiamo rinunciare alla ragionevolezza che convince dell’assurdità della guerra e scuote dall’assuefazione. Non possiamo rinunciare al desiderio dell’incontro, della conoscenza, dell’amicizia tra i popoli, consapevoli che gli altri ci sono necessari.

Senza il rapporto e il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana. Guardando sé stessi dal punto di vista dell’altro, di chi è diverso, ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità della propria persona e della propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i limiti. L’esperienza che si realizza in un luogo si deve sviluppare “in contrasto” e “in sintonia” con le esperienze di altri che vivono in contesti culturali differenti.

In realtà, una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca la nascita di una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti, poiché la cultura in cui tali apporti prendono origine risulta poi a sua volta alimentata.

(Papa Francesco, Fratelli tutti, 147-148)

 

Elogio della politica

Se non i cittadini, chi si cura della città?

Il discorso alla città non è una forma di presunzione, come se il Vescovo avesse qualche cosa da insegnare alla città e a coloro che l’amministrano e vi esercitano la responsabilità. È piuttosto un’occasione per esprimere la gratitudine per il servizio reso alla città e a tutti i comuni della Diocesi dai sindaci e da tutti coloro che collaborano per l’Amministrazione comunale, dagli operatori della sanità e dell’educazione, dalle Forze dell’ordine, dai magistrati, dalle autorità provinciali e regionali.

Desidero dunque esprimere la mia riconoscenza e la riconoscenza della comunità della Diocesi ambrosiana perché riconosco segnali di condivisione dei sentimenti profondi e di quelle attitudini di cui ho tessuto l’elogio.

Mi sembra, infatti, che tutti coloro che hanno responsabilità vivano quell’inquietudine provocata dall’interrogativo: e gli altri? E gli altri, i bambini che subiscono violenze e abusi? Le altre, le donne maltrattate, umiliate, picchiate in casa? E gli altri, gli anziani soli, chiusi nelle loro case per paura, per abitudine, perché impossibilitati a partecipare alla vita sociale? Gli altri, quelli che non hanno voce, quelli che abitano la città senza che noi ce ne accorgiamo? Gli altri, quelli per cui non abbiamo stanziato risorse sufficienti? E gli altri, quelli che non vanno a scuola, quelli che non lavorano? E gli altri, quelli che non hanno casa, quelli che non hanno assistenza sanitaria? E gli altri, quelli che lavorano troppo e sono pagati troppo poco? E gli altri, quelli che subiscono prepotenze, estorsioni, ricatti dalla malavita organizzata che si insinua dovunque può conquistarsi profitti e potere? E gli altri, i ragazzi che si associano per commettere violenze, per rovinare i muri della città e le cose di tutti, per rovinare la propria giovinezza e rendersi schiavi di dipendenze spesso irrimediabili?

Mi sembra che coloro che hanno responsabilità per il bene comune coltivino quel realismo della speranza che incoraggia ogni giorno a fare il proprio dovere, a pensare, a dialogare, a decidere, a interrogarsi sulle vie da percorrere. Chi ha responsabilità ha bisogno, più che del volontarismo, della speranza e del realismo per prendersi cura dell’insieme della comunità, della città, del proprio ambito.

C’è bisogno del realismo della speranza: chi ha responsabilità, infatti, deve guardare lontano. La popolarità o l’interesse, il prestigio o il vantaggio personale sono guadagni troppo meschini e troppo improbabili per motivare un impegno quotidiano spesso logorante e poco confortato da risultati.

Si deve affermare che la cura per il bene comune, oltre il proprio interesse o l’interesse del proprio partito, l’impegno che trova motivazione nell’inquietudine e nel realismo della speranza si chiamano “politica”.

Voglio perciò fare l’elogio della politica, di questa politica.

È più facile e consueto deprecare i comportamenti dei politici, irridere all’impotenza dei politici e all’inefficacia delle leggi, denunciare fallimenti, errori. Una sorta di scetticismo pervade l’animo lombardo nei confronti delle intenzioni e dei risultati dell’azione legislativa e dell’applicazione delle leggi.

Un brano memorabile di questo scetticismo è stato scritto da quel gran lombardo che è Alessandro Manzoni, di cui nel 2023 ricorderemo i 150 anni dalla morte. Scrive dunque Manzoni nei Promessi sposi a proposito delle “gride” contro i delinquenti del tempo antico, i cosiddetti “bravi”:

La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna […]. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere.

(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. I)

Voglio fare l’elogio della politica che si esprime nella democrazia rappresentativa, il sistema costituzionale in cui viviamo, esito di un doloroso travaglio, della tragedia della guerra, dell’oppressione della dittatura, della sapienza dei legislatori.

Voglio esprimere apprezzamento e incoraggiamento per tutti i cittadini che in questa politica si impegnano, per quelli che accettano di essere candidati nel servizio delle comunità locali. L’elogio della democrazia rappresentativa chiede che ci sia un impegno condiviso per contestare e correggere la sfiducia che è presente in chi non vuole essere coinvolto, si chiude nel proprio punto di vista e non si interessa degli altri, pretende che siano soddisfatti i propri bisogni ma non si cura del bene dell’insieme.

Voglio fare l’elogio della democrazia rappresentativa che convoca tutte le componenti della società a costituire un “noi” radunato da un senso di appartenenza e di legittima pluralità per praticare il realismo della speranza, per costruire la giustizia e la pace.

Voglio fare l’elogio della partecipazione che non si accontenta di esprimere il voto per il proprio partito e il proprio candidato, ma che discute, ascolta, offre le proprie idee, pretende supporto per le forme di aggregazione e di presenza costruttiva nel sociale per prendersi cura degli altri, soprattutto di quelli che non contano, non parlano, non votano.

Voglio fare l’elogio di un sistema che dà agli eletti il mandato di prendersi cura del bene comune chiedendo loro di rendere conto, di promuovere la sussidiarietà − evitando l’anacronistico schema pubblico-privato − e di svolgere un’opera di mediazione tra i diversi interessi.

Voglio fare l’elogio della politica che, volendo rappresentare tutti, si prende cura di chi è più fragile e bisognoso e − disponendo di risorse limitate − considera in primo luogo i servizi più necessari e coloro che non hanno risorse: i disabili gravi, gli anziani soli, le famiglie in povertà.

Ci ricorda ancora papa Francesco:

 

Voglio ricordare quegli “esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società. Tante persone con disabilità «sentono di esistere senza appartenere e senza partecipare». Ci sono ancora molte cose «che [impediscono] loro una cittadinanza piena». L’obiettivo è non solo assisterli, ma la loro «partecipazione attiva alla comunità civile ed ecclesiale. È un cammino esigente e anche faticoso, che contribuirà sempre più a formare coscienze capaci di riconoscere ognuno come persona unica e irripetibile». Ugualmente penso alle persone anziane «che, anche a motivo della disabilità, sono sentite a volte come un peso». Tuttavia, tutti possono dare «un singolare apporto al bene comune attraverso la propria originale biografia».

 (Papa Francesco, Fratelli tutti, 98)

Conclusione

 Le parole antiche e la testimonianza del giovane Salomone, chiamato a una troppo grave responsabilità; le parole sagge del nostro patrono sant’Ambrogio, funzionario dell’impero romano chiamato a essere vescovo per la comunità cattolica di questa terra; le parole familiari di Alessandro Manzoni, interprete penetrante del vivere della povera gente e delle vicende dei potenti; le parole propositive e coraggiose di papa Francesco: tutto questo ci ispira a celebrare la festa solenne di sant’Ambrogio.

In conclusione ho una domanda da porre alla città, ai responsabili delle amministrazioni e delle istituzioni della città e del territorio, a me stesso e alla comunità cattolica e a tutte le comunità cristiane e a tutti i rappresentanti delle tradizioni religiose che vivono in città: e gli altri?

E la domanda non si accontenta di una risposta facile, sbrigativa. La domanda può continuare a ispirare l’attenzione, incoraggiare la speranza, esigere d’essere considerata in ogni ambito della vita pubblica.

Si potrebbe dire: «E gli altri: chi sono?». Sono la nostra inquietudine, sono interlocutori e annunciatori della nostra speranza, sono chiamati a essere il “noi” che si governa nelle istituzioni democratiche.

Ho fatto l’elogio dell’inquietudine, del realismo della speranza, della politica: ma si tratta di parole, concetti, auspici. La verità è che io ho di fronte a me persone, volti, storie, che in ogni momento si lasciano interpellare dagli altri, che ritengono che gli altri abbiano diritto di rivolgersi a loro e di porre domande, di presentare situazioni, di inquietare i sonni. Non posso perciò tacere l’elogio di voi, amministratori della cosa pubblica nelle amministrazioni comunali, amministratori della giustizia nei tribunali, responsabili dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini, uomini e donne di Chiesa, cittadini, voi tutti che sapete chi sono gli altri e ve ne prendete cura.

Voglio fare l’elogio e dire parole di incoraggiamento e di benedizione per voi che, incontrando i problemi e le ferite, non perdete troppo tempo a domandarvi: «Di chi è la colpa?» e piuttosto vi chiedete: «Che cosa posso fare io per medicare le ferite e affrontare i problemi?».

Voglio fare l’elogio di voi che, incrociando le persone, non girate la faccia dall’altra parte, desiderando di non essere disturbati, e piuttosto sorridete e salutate e ascoltate, perché queste persone sono la vostra gente.

Voglio fare l’elogio di voi che affrontate a viso aperto le ingiustizie, le prepotenze, le forme di illegalità, le manifestazioni del vandalismo e vi mettete dalla parte delle vittime. Anche voi avete paura, perché siete gente normale, ma l’affrontate, perché gli altri vi stanno a cuore; gli altri, quelli che sono più deboli, che sono meno rappresentati, anche se non votano. Voi state dalla parte di coloro che hanno più bisogno delle istituzioni e del loro buon funzionamento.

Voglio fare l’elogio di voi, uomini delle istituzioni, onesti, dedicati, responsabili, espressione di una democrazia seria, faticosa e promettente, decisi a far funzionare il servizio che i cittadini vi hanno affidato. Voglio fare l’elogio di voi, che sapete che cos’è il bene comune e lo servite.

Faccio il vostro elogio, perché io vi stimo.