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Carcere

«La Chiesa è attenta alla fede, ma non dimentica i problemi reali»

Intervista a Luigi Pagano, provveditore regionale alle carceri lombarde, dopo essere stato per molti anni direttore di San Vittore

di Pino NARDI

18 Ottobre 2010
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«Cerchiamo sempre non soltanto di garantire i diritti previsti, ma anche di allargarli. È chiaro che il sovraffollamento in parte attenua questa nostra possibilità. Dato che il problema non è risolvibile da noi, tuttavia stiamo lavorando per attenuarlo con il personale, sostenuti dalle organizzazioni sindacali, cercando di evitare gli effetti negativi: quindi estensione dell’orario dei colloqui, dell’orario d’aria, possibilità per i detenuti meno pericolosi di essere più “aperti” e di avere un controllo meno pressante». Luigi Pagano, provveditore regionale alle carceri lombarde, per tanti anni direttore di San Vittore, conosce bene i problemi della casa circondariale. E quali strade si possono imboccare per umanizzare il carcere.

C’è qualche soluzione in particolare per il sovraffollamento di San Vittore?
San Vittore ha sempre vissuto il sovraffollamento, non è una novità. Il problema è che si è esteso non soltanto alla regione, ma a tutta la nazione, tanto è vero che il Ministro ha emanato lo stato di emergenza nelle carceri nominando il Capo Dipartimento commissario straordinario. E cercando – attraverso il “Piano carcere” – di dare un aumento dei posti letto e di prevedere anche misure deflattive, ad esempio i “domiciliari”, in questo momento all’esame in Parlamento. Se vogliamo soluzioni, direi di lavorare sul trattamento interno – differenziando gli istituti in relazione alla pericolosità del soggetto – e sulle misure alternative laddove ovviamente è possibile avendo detenuti definitivi. Tutto questo però San Vittore non lo può fare, perché è una casa circondariale. Su San Vittore un’ipotesi potrebbe essere trovare alternative all’imputato come alloggi, ai tossicodipendenti una presa in carico da parte delle comunità o di altri servizi. Tuttavia non è molto semplice, perché il 60% è di detenuti stranieri che non hanno riferimenti esterni. Questo è il grande problema del sovraffollamento nello specifico di San Vittore.

Per il recupero e l’inserimento nella società cosa state facendo in concreto?
Su questo riusciamo a fare di più, perché possiamo lavorare sul circuito penitenziario che conta 18 istituti. Stiamo prevedendo un tipo di trattamento differenziato non solo in relazione alla pericolosità del soggetto, ma anche nell’azione verso la comunità esterna. Nelle case circondariali lavoriamo per l’accoglienza, con l’obiettivo principale di evitare autolesionismo oppure di peggio. Molti di questi detenuti passano in carcere per pochi giorni, quindi dobbiamo operare su tempi brevi. Si tratta maggiormente di garanzie di natura medica piuttosto che un lavoro di lungo corso. Per gli altri invece, che prevediamo vengano condannati e sono condannati, puntiamo sul trattamento di reinserimento sociale. A Opera sono presenti personaggi un po’ più pericolosi, però anche su quelli siamo impegnati. È a Bollate dove incentriamo la maggior parte di attività di natura sociale: abbiamo quasi la metà dei detenuti che lavorano con stipendi esterni. Abbiamo formato a livello regionale un’agenzia per la promozione del lavoro penitenziario e da Bollate per esempio ogni mattina escono oltre 100 persone per il lavoro all’esterno. Come misure alternative la Lombardia è la regione che ha avuto un incremento maggiore in termini assoluti, anche per un ottimo rapporto con il territorio e con la magistratura di sorveglianza.

Secondo lei, pesa l’attuale crisi economica e occupazionale?
Sicuramente sì, nonostante le leggi, le strutture che ci permettono di essere un po’ più concorrenziali (i compensi sono due terzi della paga sindacale), perché c’è la legge Smuraglia che abbatte i costi e la fiscalizzazione, perché alle imprese che vengono dall’esterno possiamo dare in comodato gratuito gli spazi. In qualche maniera riusciamo a rendere economicamente più vantaggioso il lavoro penitenziario. È chiaro che poi quando si parla di lavoro all’esterno c’è qualche problema in più. Infatti di quei 100, molti lavorano con l’Amsa, con una dequalificazione maggiore, ma si cerca di prendere quello che c’è. Abbiamo portato fuori 20-30 detenuti per occupazioni stagionali, come la neve o altro. Molti lavorano per sé, col Comune abbiamo detenuti che vanno a lavorare al cimitero piuttosto che al canile, tra breve 16 detenuti andranno a lavorare addirittura in Tribunale per la dematerializzazione di atti giuridici. Sono tutte ottime attività, alcune le abbiamo sovvenzionate anche noi come start up, tipo questa in concorso con il presidente del Tribunale di Milano, con quello dei Gip e con la Procura della Repubblica. Il fatto di portare 16 detenuti già giudicati da quel Tribunale a lavorare in quel palazzo è anche una grande soddisfazione dal punto di vista simbolico.

Come valuta la presenza della Chiesa nelle carceri? Cosa potrebbero fare di più o di diverso?
Rispetto sempre la grande galassia del volontariato. Calcisticamente è come il dodicesimo uomo in campo… Quindi il contributo è importante per tutta una serie di motivi. Per la materialità che offrono: oggi abbiamo un volontariato più qualificato, persone che accompagnano per tutto il percorso detentivo e anche all’esterno a partire dall’ingresso in carcere. Ma servono anche – uso questo termine con molto rispetto – come apostoli laici. Entrando poi riescono a portare fuori l’esperienza del carcere e a creare anche un po’ di consenso esterno, che manca e che molte volte ostacola il processo di reinserimento. La Chiesa meneghina a me è sempre piaciuta, perché sicuramente ha l’occhio in alto verso nostro Signore, però non dimentica che esiste anche una materialità, una terra, i problemi reali. Basta leggere il cardinal Tettamanzi e in precedenza il cardinal Martini. Ma anche i nostri cappellani riescono a conciliare esattamente la strada della fede con il problema pratico, “stasera devo mangiare e come devo fare”. E questa è una gran bella cosa.