«Ogni incontro autentico aiuta a uscire da noi stessi: in questo tempo cosi ricco di sfide, vogliamo vederle come possibilità, rinnovando la nostra disponibilità a essere vicini là dove vi sono difficoltà e solitudine. Vogliamo continuare a farci prossimi con gesti semplici: custodiamo nel cuore la speranza che ci ha accompagnato in questo Anno Santo, una speranza che non è evasione, ma forza che apre strade nuove. Abbiamo la certezza del bene che c’è e che, quando è condiviso, cresce e si moltiplica. La ringraziamo per i suoi incoraggiamenti nella gioia, nella fatica, ma soprattutto nella responsabilità».
Questo il saluto che il cappellano del Policlinico, don Giuseppe Scalvini, rivolge all’Arcivescovo all’inizio della Messa che suggella un’intensa mattinata vissuta nello storico ospedale milanese, pronto l’anno prossimo a trasferirsi nella contigua e modernissima nuova sede: appunto la grande sfida sottolineata anche da monsignor Delpini.

Accolto da Marco Giachetti, presidente della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico e della Fondazione Patrimonio Ca’ Granda, dai cappellani, dai medici, dal personale e dai degenti, dopo aver visitato i reparti delle Malattie infettive, della Terapia intensiva adulti, della Patologia della gravidanza, le Sale parto, il Puerperio post-parto e la Terapia intensiva neonatale, l’Arcivescovo presiede l’Eucaristia, come da molti anni, nei giorni precedenti la Festa dei Santi Martiri Innocenti, nella chiesa dei Santi Martiri interna alla Clinica “Luigi Mangiagalli”. Dodici i sacerdoti concelebranti, tra cui i quattro cappellani – oltre a don Scalvini, don Marco Gianola, don Luigi Bonarrigo e don Mario Cardinetti – il già cappellano don Norberto Gamba e alcuni altri presbiteri legati alla realtà del Policlinico. Non mancano i tre seminaristi di IV Teologia che svolgono il loro servizio presso la struttura.
Nella celebrazione l’Arcivescovo fa riferimento ai Santi martiri, «un evento tragico, ma che parla della speranza che sempre nasce, anche nei momenti difficili, incontrando il Signore». Una speranza che, nell’omelia, ha le parole di una fiaba che pure tanto evoca le vittime più fragili – i piccoli – delle molte guerre che oggi insanguinano il pianeta. Come i bambini di Betlemme, sterminati per la furia assurda di Erode, che «si incontrano in cielo e si raccontano storie»; «come il beato Giacomo», figlio di Barabba salvato dal sacrificio del Signore, liberato dalla folla e che «da Gesù ha imparato a perdonare, divenendo capace e deciso a non far soffrire più nessuno». O come il beato Efrem, «nato imperfetto», la cui mamma, sentendosi in colpa forse per non aver sofferto troppo, ritrovò la serenità solo «quando riconobbe in Maria come una sorella, una donna che poteva capire il suo dolore e guarire la sua ferita».
E, infine, come il beato Giuda, «il più bel bambino di Betlemme», trafitto da un soldato, perseguitato, poi, dagli incubi e dal rimorso. «Divenne centurione, quel soldato, ma non fu mai un eroe; sempre aveva paura di dover uccidere ancora. Quando però vide Gesù nazareno crocifisso e lo vide morire così, fu folgorato dalla rivelazione. Riconobbe che la morte, questa morte per amore di Gesù, era la via per entrare nella gloria di Dio. Riconciliato con il suo passato il centurione divenne discepolo del Risorto e ricordando il mio volto di bambino e il mio sorriso continua a offrire sorrisi a tutti coloro che incontra».

Arriva, così, la conclusione che non può non essere un monito per il presente: «In paradiso, i Santi innocenti sanno riconoscere che la loro tragica storia e le vite e le morti di tanti santi innocenti sono partecipi della sofferenza di Cristo e contribuiscono alla salvezza dell’umanità. Confortano tutti i cuori feriti per avere sofferto ingiustamente, feriti per aver fatto soffrire e aprono per tutti la porta della speranza. Così raccontano i bambini di Betlemme e chissà quanti ancora», conclude monsignor Delpini. E quel «chissà quanti ancora», fa venire le lacrime agli occhi.




