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Opinione

Erba: «Non liquidiamo la violenza giovanile a episodi apparentemente isolati»

L’arresto di cinque ragazzi per l’aggressione a un 22enne a Milano ha riportato il tema nel dibattito pubblico. Ma c'è chi, come l’insegnante e scrittore, ne rifiuta una facile banalizzazione e sottolinea che per educare serve ascolto: «Io non ho le risposte: accompagno qualcuno a trovarle»

di Lorenzo GARBARINO

1 Dicembre 2025
Foto di cottonbro studio (Pexels)

Non chiamateli mostri. Anche se l’arresto dei cinque ragazzi per l’aggressione a un 22enne dello scorso 12 ottobre a Milano ha riportato nel dibattito pubblico il tema della violenza giovanile, ci sono persone che ne rifiutano una facile banalizzazione. Come l’insegnante e scrittore Marco Erba, che la scorsa settimana ha raccontato in un editoriale pubblicato su Avvenire il malessere covato quotidianamente dai giovani. Precarietà emotiva, ansia da prestazione, difficoltà nelle relazioni, competitività vissuta come unica forma di riconoscimento sociale: sono solo alcuni dei disagi che l’insegnante elenca tra i disturbi che è solito riconoscere tra i banchi di scuola. E la domanda che oggi si pone non è più solo «perché» accade, ma quale modello educativo stiamo consegnando ai ragazzi.

L’insegnante e scrittore Marco Erba

«Nel mondo della scuola italiana, così come nella società in generale, il modello della competitività a tutti i costi sta diventando un’ossessione», afferma Erba. Una spinta che per l’insegnante, se allenata come stimolo a migliorarsi, può essere positiva solo se non diventa l’unico parametro di successo. Altrimenti finisce per soffocare l’aspetto umano dell’apprendimento. «Tante volte c’è il mito della scuola d’eccellenza, della scuola milanese – aggiunge Erba -. Ci sono docenti dell’hinterland, per esempio, che consigliano agli studenti di andare a Milano perché “lì sì che ci sono i licei, quelli veri ed eccellenti”. Ma con questo mito del primeggiare, la scuola perde il suo significato. Noi siamo educatori che sfruttano la materia d’insegnamento per toccare la vita di chi ha di fronte. Questo è insegnare».

Secondo il docente, questa retorica del primeggiare a tutti i costi, anziché produrre risultati, rischia di generare ambienti elitari, dove la prestazione supera la relazione: «Mi sono capitate alcune ripetizioni con allievi che raccontano la totale inesistenza di un rapporto umano con i docenti. Che descrivono la scuola con un senso di ansia». Una competizione continua, che si riflette anche nei temi scritti dagli studenti: nell’ultimo anno, quasi un terzo degli allievi di Erba ha riferito situazioni di disagio psicologico, una quota in linea con i dati nazionali.

Ed è proprio questo modello del vincente, dominante nel discorso pubblico, che secondo l’educatore trasforma i propri compagni in avversari. «La società non è uno sport individuale, ma di squadra: si vince insieme», rivendica Erba. Oggi però questo malessere giovanile emerge sempre prima, già nei primi anni delle superiori: «Al biennio questi segni si vedono chiaramente. Per questo serve una didattica dell’empatia. Ogni materia deve includere una chiave che ci ricordi che siamo chiamati a lasciare un segno positivo nella vita degli altri. E si può raggiungere in mille modi: laboratori di scrittura, poesia, oppure spiegando letteratura, filosofia o scienze in un determinato modo». L’importante è però insistere sempre su un punto: per educare, serve ascolto: «Se io ti dico ciò che è importante per te senza partire da te, non ti raggiungo. L’educatore deve declinare la didattica sulla persona che ha davanti. Io non ho le risposte: accompagno qualcuno a trovarle».

Anche questi casi di violenza giovanile esplosi in contesti apparentemente sereni, non vanno liquidati come episodi isolati. Accanto alla scuola, infatti, Erba richiama la responsabilità educativa degli adulti: «Ricordo ex allievi che ridevano come matti guardando i video di incidenti ripresi dalle telecamere. Ciò che però non distinguevano è che non si trattava di fiction come Game of Thrones, ma della vita reale. E se lo schermo è piatto, si perde la profondità delle relazioni, confondendo il reale col virtuale e anestetizzando il cervello. Dareste mai in mano a vostro figlio un coltello affilato? Se ha vent’anni ed è un artigiano del legno, sì. Ma se ha sei anni, non c’è maturità nel gestirlo. Dobbiamo stimolare i figli a vivere relazioni reali. Solo così avranno più possibilità di sentire il dolore dell’altro e non diventare macchine che massacrano, per sfogare la loro frustrazione».