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Nella Lettera alla Diocesi

Da Delpini un invito alla fraternità, alla contemplazione e alla concretezza

Lo stile utilizzato dall’Arcivescovo è anche un’indicazione di metodo: le tre parole-chiave si compenetrano l’una nell’altra per incoraggiare a iniziare con fiducia un cammino nuovo

di Chiara GIACCARDIDocente di Sociologia e antropologia dei media, Università Cattolica di Milano

15 Ottobre 2017

Lo stile con cui il nuovo Arcivescovo di Milano inizia la sua Lettera alla Diocesi è assaggio di ciò che dobbiamo aspettarci: gratitudine e affetto, umiltà e fermezza. Stile che è metodo, e crea da subito un contesto inclusivo.

Se dovessi indicare tre parole chiave di questo messaggio direi: fraternità, contemplazione, concretezza.

Il riferimento alla fraternità, che apre la Lettera e la percorre tutta, non è artificio retorico, ma legame reale, che scaturisce dalla comune filiazione. Non è un caso che, dopo la morte di Dio e la crisi del padre, anche il rapporto col prossimo sia in difficoltà. E invece è proprio dall’esperienza della fraternità che oggi possiamo lasciarci istruire. I fratelli non sono mai tutti uguali: c’è il grande e il piccolo, il forte e il fragile, il timido e l’estroverso, il sano e il malato… Mai come in famiglia si sperimenta che siamo tutti diversi, eppure uniti. La differenza ci fa sempre un po’ paura. Eppure la stessa Trinità è il paradigma più alto delle differenze in comunione.

Fraternità è ricchezza, come ha scritto Saint-Éxupery: «Se sei diverso da me, fratello, lungi dall’offendermi, tu mi arricchisci». Solo sul senso di fraternità possono innestarsi in modo proficuo alcuni processi necessari: come la semplificazione, per ridurre frammentazione, burocratizzazione e alla fine astrazione che fa male alla Chiesa. E poi la convergenza, parola oggi di moda, che è però antropologica prima che tecnologica, dato che riguarda la «pluralità delle esperienze in una fraterna unità». Snellire le procedure, e soprattutto non aver paura, da parte del clero, di cedere responsabilità ai laici: non si può chiedere responsabilità senza autorizzarla.

Mettersi in movimento, dunque. Ma la radice dell’azione non sta nella volontà. Per questo, nel primo paragrafo della Lettera, la raccomandazione è piuttosto quella di fermare la nostra corsa, per una «sosta contemplativa». Alzare lo sguardo, noi abituati a occhiate corte, sull’immediato, nell’affannoso tentativo di non farci travolgere, calcolando i rischi con una misura sempre un po’ stretta e autoreferenziale. Nel contemplare, l’io è silente e dimentico di sé: per questo l’indicibile può sorprenderlo e dilatarlo al di là dei suoi confini.

Condividere una visione è modo nuovo di creare unità, superando le divisioni che una parola troppo spesso ridotta ad arma continua a generare. L’unica parola veramente potente, ci dice il passo dell’Apocalisse, viene dal cielo. Impressionante l’attualità di questa Parola. Ci illumina su cosa significa vivere in una città dove «è desiderabile abitare».

La sicurezza – un tema oggi così caldo e declinato in chiave difensiva (la mia contro la tua) – va legata all’accoglienza anziché al respingimento: una città che ha fondamenta solide può accogliere tutti. «Non vi sarà più notte»: ai tempi bui delle porte chiuse si risponde aprendo, lasciando entrare la luce che abbiamo contemplato. Non c’è sicurezza senza misericordia, perché solo le porte aperte lasciano entrare Dio, che è amore. Senza Dio la molteplicità è Babilonia. La città è bella non per impresa umana, ma perché Dio la abita, quando i fratelli si abbracciano e aiutano chi cade a rialzarsi. La contemplazione non è dunque mai fine a stessa, ma è il respiro di un movimento che si intreccia con il quotidiano e lo nutre, lo anima, lo allarga.

Oggi, nella schizofrenia tra un materialismo cieco e un’astrazione disumana, una nuova concretezza è richiesta: capace di vedere che «tutto è connesso», che la vicenda singolare di ognuno può parlare a molti, che ciò che si vede non è tutto ciò che è, che il tempo non è solo il presente del limite e dell’errore, ma il futuro dell’attesa e della conversione.

Concretezza non è appiattimento sulla contingenza, bensì radicamento nella vita con tutte le sue dimensioni. Il contrario di quella astrazione-separazione che degenera in gelido formalismo, come lo chiamava Romano Guardini. Il concreto è fatto di quotidianità imbevuta di spirito, di gesti illuminati dalla speranza e dalla preghiera, di un intreccio, mai separabile, di finito e infinito, visibile e invisibile, ora e non ancora. Iniziamo con fiducia questo cammino nuovo.

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