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27 Giugno 2003

Dagli spalti della rocca lo sguardo spazia sul borgo antico, sulle cascine ammantate di ruvida nostalgia, su torri e campanili che punteggiano l’orizzonte. Al di là di una verde distesa di prati, accanto a opifici che fanno ormai parte dell’archeologia industriale, si scorge la severa facciata della chiesa di Santa Maria delle Grazie. La si raggiunga senza indugi, perché il tempio mariano – purtroppo ancora non conosciuto come merita – racchiude uno dei cicli decorativi più ampli e completi di tutto il Cinquecento lombardo. L’interno è armonioso, elegante, una vera summa dell’arte rinascimentale secondo l’interpretazione cremonese: colori vivaci, segno morbido, grande forza espressiva. Di molti artisti che lavorarono in questa chiesa nulla sappiamo: senza paternità, ad esempio resta l’imponente «Giudizio Universale» della controfacciata. Ma di altri interventi sono ben noti gli autori. Gli Scanzi, ad esempio, che in Santa Maria delle Grazie operarono nelle cappelle e nella volta della navata: Alberto il padre, Francesco il figlio, Ermes e Andrea i possibili – ma solo secondo la tradizione – fratelli. E poi Giulio Campi, che ricoprì di affreschi l’arco trionfale, il coro e il presbiterio, eseguendo fedelmente quanto gli era stato commissionato dal marchese Massimiliano Stampa, che volle farsi ritrarre, si crede, in uno degli oranti che assistono all’Assunzione della Vergine. Già, Massimiliano Stampa. Un personaggio oscuro, dal comportamento dispotico, perfino folle a tratti, che ambiva partire missionario per convertire i Mori dell’Africa settentrionale. Sua nipote fu la sventurata Marianna de Leyva. E «sventurata» la chiamò il Manzoni, perché lei, Marianna, fu la celeberimma Monaca di Monza raccontata ne «I Promessi sposi»: gli anni della prima giovinezza li trascorse proprio qui, a Soncino, tra le mura del castello e quelle di Santa Maria delle Grazie. Anche Leonardo da Vinci fu a Soncino, incuriosito dall’ingegnosa rete di canali che riforniva d’acqua corrente tutte le case del borgo: studi di cui è rimasta traccia in alcune carte autografe. E prima di lui venne a Soncino il famigerato Ezzelino da Romano. O meglio, vi fu portato, ferito e prigioniero, sconfitto nel 1259 da una coalizione da fare invidia a quella che si era opposta al Barbarossa. Morì quaggiù, Ezzelino, ma la sua tomba non fu mai trovata, e ancor oggi c’è chi la cerca. Il sole tramonta, mentre un gruppo di anziani, all’ombra dei portici, discute con calma di argomenti ben noti, più con cenni del capo che con parole. Qualcuno, in alto, s’affaccia timido a una grande finestra: guarda lungo il vicolo, accenna un gesto di saluto e poi si ritrae. Più oltre c’è la casa degli stampatori, dove nel 1488 venne composto il primo volume dell’Antico Testamento in caratteri ebraici. Ma qui, qui una musica lieve, appena percettibile, si diffonde da un cortile fiorito, che sa di panni lavati, di pane fatto in casa e di bambini. È il ritmo di Soncino, il ritmo di un tempo che non corre.