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25 Giugno 2003

Già aveva visto l’Annunciazione, il volto sereno di Maria, l’angelo impetuoso con la mano alzata che le parlava, e attorno il silenzio, quel silenzio che ammanta le cose grandi, che introduce i fatti straordinari. E poi la Visitazione, nell’abbraccio sincero di due donne toccate dalla Grazia, che si sostengono l’una l’altra, piangendo di gioia. La Nascita di Gesù le era apparsa proprio come se l’era immaginata: la tenerezza infinita di una nuova creatura che viene alla vita, l’incredibile semplicità di un Dio che si fa uomo, con gli animali attorno a render lode anch’essi, come se capissero, come se sapessero. Le cappelle avevano la forma di piccole chiese, ciascuna col suo portico, ognuna con una grande finestra sulla facciata e la croce in cima al tetto. Teresa saliva i tre, quattro gradini e si affacciava ogni volta a un nuovo episodio di quel sacro teatro, la fronte appoggiata alla grata. E davanti a tanta bellezza la donna smetteva per un attimo di pregare. Ammirava le statue, riempiva lo sguardo di colori e di gesti, e sorrideva felice, beata persino. Ma anche quel suo stupore, in fondo, era preghiera. Teresa sapeva chi aveva fatto costruire quelle cappelle, e come lei, del resto, quasi tutti nelle valli attorno. Erano stati alcuni signori di Ossuccio e del Lario occidentale, uomini che avevano fatto fortuna, che si erano arricchiti, e che avevano voluto sdebitarsi così del favore che il cielo aveva loro voluto concedere, realizzando qualcosa di bello nella terra in cui erano nati e da cui erano partiti. Un segno di fede, di cui tutte le comunità della zona avrebbero potuto godere. E per avventura, Teresa aveva conosciuto anche l’artista che aveva modellato buona parte di quelle figure. Beh, “conosciuto” non era forse la parola più giusta, ma Agostino Silva l’aveva visto davvero, un giorno che suo padre l’aveva portata con sé, bambina, a Morbio per la grande fiera di primavera. Se lo ricordava bene, mastro Agostino, tutto sporco di gesso e colori, le mani bianche, i capelli arruffati, mentre nella sua grande bottega lavorava e urlava, dando ordini ai garzoni e agli apprendisti. Quello, gli aveva detto il babbo indicandolo con il dito, era una persona importante, che era stato anche a Roma, al servizio di nobili e cardinali. «Nunc et in hora mortis nostrae». Una dopo l’altra la donna aveva contemplato gli episodi della Passione, sentendosi stringere il cuore alla Flagellazione, immedesimandosi quasi nella Veronica che asciuga il volto del Cristo caricato del legno. Ma ora Teresa aveva davanti una rappresentazione ancora più imponente, ancora più toccante. Gesù moriva in croce, e il realismo, la forza di quella scena l’agitavano nell’intimo, turbandola. Osservava il Figlio dell’Uomo crocifisso, l’indifferenza dei soldati e degli sgherri ai suoi piedi, l’angoscia e il dolore che stravolgeva i volti di quelle donne che l’avevano seguito fin lassù… Ah, quel dolore, poteva dire di conoscerlo, lei. «Amen», si ripetè. «Amen! Amen!», e il suo ormai era quasi un grido, e ora correva, correva su, in alto, verso l’ultima stazione, là dove ogni speranza può divenire certezza, dove ogni dubbio può sciogliersi in verità. Arrivò dinnanzi alla quattordicesima cappella ansimando, singhiozzando un pianto silenzioso. «Amen!» urlò ancora una volta in faccia al Risorto. Ma la sua non era una sfida. Lassù volle affidare ogni cosa di sè, la sua fede, i suoi figli, la sua vita. Poi Teresa guardò il lago, splendente di mille luci riflesse, e un sorriso cominciò ad affiorarle alle labbra.