«Siamo animati dalla cara e soave speranza (…) di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage». L’appello del 1 agosto 1917 ai capi dei paesi belligeranti da parte di Benedetto XV non è stato in realtà il primo tentativo da parte di questo pontefice di far regnare la ragione in un continente su cui erano discesi i demoni della violenza e dell’odio. Già nel novembre del primo anno di guerra egli aveva ammonito nella lettera enciclica “Ad beatissimi apostolorum” che “Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti”.
Eppure Benedetto XV non era il solo a restare fedele al progetto di una pace duratura e giusta tra i popoli. In ambedue gli schieramenti vi erano voci che parlavano di pace, anche in trincea, anche durante gli assalti alla baionetta. Un capolavoro del Novecento si chiude così: «Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’attorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?». È questo l’augurio de “La montagna incantata” di Thomas Mann. Iniziato a scrivere durante la Grande Guerra, questo romanzo spiega il lento cambiamento di Mann, che dall’interventismo spinto passò dalla parte della democrazia e dei valori della pace.
Anche Erich Maria Remarque, nel suo celebre “Niente di nuovo sul fronte occidentale” raccontò che dietro la retorica imperialistica si nascondeva il terribile stato dei poveri e spesso ignari soldati consegnati al massacro.
A dire il vero, la Grande Guerra esercitò su alcuni un suo fascino ambiguo: un altro scrittore tedesco, Ernst Jûnger, nel suo “Nelle tempeste d’acciaio” la celebrò come azione vitale contro le finzioni borghesi.
Anche in Italia molti presero l’abbaglio di vedere nella guerra la soluzione della crisi: basta con i dubbi, l’azione finalmente porrà l’uomo di fronte alla nuda e cruda realtà. Lo aveva già scritto Marinetti nel suo Manifesto del Futurismo che la guerra era la “sola igiene del mondo”; i nazionalisti e D’Annunzio vedevano nel conflitto la realizzazione del mito estetico – e non solo – della Nuova Italia; d’altronde il mite Pascoli aveva giudicato con indulgenza filo-proletaria l’impresa libica nel 1911.
Ungaretti vide nell’arruolamento volontario la soluzione di una crisi, il termine del vagabondaggio, reale e metaforico: «Sono un estraneo (…) E se la guerra mi consacrasse italiano?” scrisse nel ‘14 a Prezzolini. Per poi lasciarci uno dei documenti più celebri della strazio ma anche della fraternità della trincea, le trentadue poesie de “Il porto sepolto” che diverranno il punto di riferimento dell’ermetismo: “Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/digrignata/ volta al plenilunio».
La morte reale, non retorica, dispensatrice di miseria e orrore è al centro anche della poesia e delle lettere di Clemente Rebora, che poi sceglierà la via del monastero; se nel “Canti anonimi” il poeta aveva capito che con la guerra “l’età cavernicola è in noi”, in “Viatico” l’orrore esplode: “tra melma e sangue/ tronco senza gambe/ e il tuo lamento ancora/ pietà di noi rimasti”. Gli orpelli mitizzanti erano caduti, quello che rimaneva era il sacrificio degli ultimi.
Renato Serra, che morirà in guerra, scelse l’accettazione di un fatto che – non bisognava illudersi – non avrebbe cambiato né il mondo né la letteratura. Avveniva ciò che doveva avvenire, e questo sembrava in accordo con la visione del mondo di alcuni maestri di allora, Nietzsche, Schopenhauer e perfino Hegel.
Ma ci fu un diverso esempio di coraggio e nel contempo di fedeltà ai valori cristiani della pace: pur accettando di ubbidire alle leggi della patria, Igino Giordani restò sempre contrario ad una guerra che era, come ebbe modo di scrivere “assurdità, stupidità e sopra tutto peccato, (…) operazione fatta contro il popolo”. Anche per lo scrittore tiburtino il mito della guerra era nudo, senza più i veli della retorica.