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Terza domenica

Scola: «La Quaresima ci educa alla maturità della fede»

L'Arcivescovo: «Dalla nostra appartenenza alla Chiesa nasce in noi la responsabilità della testimonianza, personale e comunitaria. Attendiamo papa Francesco per continuare ad impararla»

del cardinale Angelo SCOLA Arcivescovo di Milano

19 Marzo 2017

«Misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34, 6b). Nel brano dell’Esodo che la liturgia oggi ci propone, Dio rivela a Mosè il suo cuore di padre; e Mosè, a nome di tutto il popolo, osa domandare la sua stabile compagnia: «Fa’ di noi la tua eredità» (Es 34,9b). Eppure è ben consapevole dell’ostinata ribellione di Israele: «Sì, è un popolo di dura cervice» (Es 34,9), che irrigidisce il collo per non portare il giogo della Legge. Ma sa che può contare su ciò che Dio è in se stesso, indipendentemente dall’uomo. Ognuno di noi, per vivere, ha bisogno di questa gratuità assoluta.

Lo sa bene l’Apostolo Paolo, quando scrive ai fratelli della Galazia: «Quelli… che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione» (Gal 3,10). La Legge infatti prima ordina e poi condanna, perché domanda una osservanza piena che l’uomo, con le sole sue forze, è impotente a realizzare. Affidarci alla forza di Dio e lasciarci condurre da lui, certi che Egli compirà la sua promessa – come fece Abramo – è questo che ci fa giusti. «Il giusto per fede vivrà» (Gal 3,11).

Il cammino quaresimale ci educa alla maturità della fede.

La disputa, serrata e drammatica (alla fine «raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui», Gv 8,59), tra Gesù e i Giudei, narrata dal passaggio del Vangelo di oggi ci propone un affondo sulla fede, cioè sull’«essere da Dio» (cfr Gv 8,47) per riconoscerlo come Padre. È un brano lungo e complesso, mi limiterò solo a una sottolineatura.

La dignità di figli e perciò la vera libertà (in latino i figli si chiamavano liberi) non derivano da nessun vanto umano, né di stirpe, né di merito, ma dal «rimanere nella parola» (cfr Gv 8,31) del Figlio.

I Giudei rivendicano la loro discendenza da Abramo, ma non ne fanno le opere. «Gli risposero: “Il padre nostro è Abramo”. Disse loro Gesù: “Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo”» (Gv 8,39). L’opera fondamentale di Abramo, dice l’Epistola, è la fede.

La fede di Gesù ha una cifra identificativa: il suo obbediente riferimento al Padre. Il Prefazio della Santa Messa dell’odierna domenica ci fa pregare così: «Tu, o Padre, nei secoli antichi, benedicendo la futura stirpe di Abramo, rivelasti la venuta tra noi di Cristo, tuo Figlio. La moltitudine di popoli, preannunziati al patriarca come sua discendenza, è veramente la tua unica Chiesa, che si raccoglie da ogni tribù, lingua e nazione. In essa contempliamo felici quanto ai nostri padri avevi promesso».

Dalla gratitudine per la nostra appartenenza alla Chiesa nasce in noi la responsabilità della testimonianza, personale e comunitaria. Attendiamo Papa Francesco per continuare ad impararla.

«Io Sono», dice Gesù: pietre contro la verità

Gesù esce dal tempio. Lo vediamo, a sinistra, mentre è già fuori dalla porta, quasi stia abbandonando il quadro stesso... Dietro a lui c’è agitazione. Giovani uomini in calzamaglia si chinano a raccogliere pietre, sorta di fiori malefici spuntati come per diabolico incanto sul pavimento di marmo. Si intuisce un mormorio diffuso, forse urla, persino. Si sono levate quando il Nazareno ha proclamato: «Prima che Abramo fosse, Io Sono». La pittura di Michael Pacher è precisa e smagliante. E, come molti artisti nordici, ha qualcosa di visionario e di fiabesco. Anche se lui è «nordico» fino a un certo punto: attivo a Brunico nella seconda metà del XV secolo, Pacher è di lingua e cultura tedesca, ma si forma a Padova e vive in quel Sud Tirolo che da sempre è crocevia di culture, ponte fra la civiltà mediterranea e quella alpina, via verso il centro dell’Europa. Questa splendida tavola è un pannello del magnifico altare realizzato fra il 1470 e il 1480 per la Wallfahrtskirche di Sankt Wolfgang, in Austria, frequentata meta di pellegrinaggio a pochi chilometri da Salisburgo. Forse il lavoro più impegnativo e più celebre di Michael Pacher, uno dei pochi a essere ancora nella chiesa per cui è stato commissionato. Gesù se ne va, ma la sua non è una fuga. Il suo sguardo è pensoso, come velato da una sofferenza intima, del cuore, per questa umanità che non riesce a capire, sclerotica. Che di fronte all’annuncio della verità reagisce soltanto con rabbia e violenza. Quella verità che rende liberi. Nuda, come nudi sono i piedi del Messia che lascia il tempio.
Luca Frigerio

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