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Gocce di cultura

Quando il Nord emigrava al Sud

Il fenomeno dell’emigrazione dai paesi dell’Alto Lario a Palermo

Felice Asnaghi

14 Novembre 2012

Nel libro “Gioielli storico dell’Alto Lario- Cultura del prezioso nel periodo dell’emigrazione a Palermo, grafica Marelli, Como,2009, scritto dalla ricercatrice comasca Rita Pellegrini si spalanca un mondo a molti sconosciuto: l’emigrazione  di genti dalle pievi di Dongo, Gravedona e Sorico verso Palermo. Un fenomeno che ebbe notevole impatto nella vita quotidiana di queste popolazioni lariane al quale l’associazione benemerita Iubilantes ha dedicato studi approfonditi e la  stessa Regione Lombardia non ha esitato a dare il patrocinio a questa pubblicazione in quanto unica nel suo genere.

La documentazione presa in considerazione sia dalla Pellegrini che da Iubilantes si basa su ricerche d’archivio parrocchiali, diocesani e di Stato;  sulla lettura di atti notarili,  trascrizione di elenchi di beni di antica memoria, sull’ascolto di testimonianze orali tramandate da padre in figlio, dalla visione e catalogazione di oggetti preziosi personali ed arredi sacri le cui punzonature accertano la loro origine palermitana. Questa ricerca ha dato vita a pubblicazioni monografiche, al libro della Pellegrini, a cortometraggi, fiction, animazioni teatrali che hanno visto la partecipazione corale di paesi, scuole.

L’emigrazione delle popolazioni dell’Alto Lario si colloca tra la metà del XVI e la fine del XVIII secolo. Le località interessate sono state quelle che si affacciano a mezza costa sulla sponda occidentale dell’alto lago:  Livo, Peglio, Stazzona, Vercana, Germasino, Càino,  Gravedona, Gera, Bugiallo, Montemezzo, Trezzone, Domaso, Naro, Traversa, Dosso Liro, Dongo, Consiglio Rumo, Garzeno.

 

Perché la gente di questi paesi lasciò le loro valli poste in uno dei luoghi più suggestivi d’Italia?

Una delle ipotesi da prendere  in considerazione è il forte abbassamento della temperatura che portò alla moria degli animali, all’impossibilità di coltivare la terra e la vite e l’evidente sopraggiungere di periodi di carestia. Un’altra ipotesi è il protrarsi di epidemie di peste che hanno caratterizzato tutto il Cinquecento. Va da sé che il morbo si propagava velocemente nei piccoli paesi. Ipotesi da verificare se non altro attraverso la consultazione dei libri parrocchiali. Se poi aggiungiamo la pesantezza delle tassazioni del governo spagnolo…

Dove erano diretti questi emigranti? Inizialmente le mete più ambite erano  Bologna, Pesaro, Roma, Napoli, poi alcuni gruppi consistenti si stabilirono ad Ancona, ma fu Palermo il vero polo  attrattivo.  La città era governata dagli Spagnoli come le terre dello Stato di Milano e questo facilitava gli scambi commerciali. Palermo città di mare era crocevia dei commerci nel Mediterraneo e da sempre un luogo di incontro di differenti popolazioni. Qui il lavoro non mancava e la richiesta di manodopera era continua.

Nella capitale del Regno delle due Sicilie operava la “Nazione Milanese sue Lombarda”, un’organizzazione suddivisa in varie Scholae Panormi,che rappresentavano le varie comunità di provenienza. Queste ultime erano delle confraternite che mantenevano rapporti stabili con il paese natio. La sede della “Nazione” era presso la chiesa che poi diverrà la basilica di San Carlo dei Lombardi. Queste confraternite agivano come società di mutuo soccorso e programmavano il viaggio di andata dei loro paesani nei minimi particolari. Il gruppo di uomini (di norma le donne erano escluse) che voleva lasciare il paese scendeva la montagna camminando lungo l’impervia mulattiera arrivava  all’attracco sul lago. Qui una “lucia” li prendeva a bordo fino a Lecco e poi si seguiva l’Adda fino a Milano. Dal capoluogo lombardo partivano le carovane di carri sino a Genova dove avveniva l’imbarco sulla grande nave con destinazione Palermo. Arrivati alla meta, li aspettava un tetto dove rifugiarsi e un lavoro da svolgere. L’integrazione con la città era cosa certa. L’artigianato della costruzione di botti era in mano appunto ai nostri Lariani e la zona della città dove si erano stabiliti è l’odierna Piazza della Rivoluzione.

Molte famiglie rimasero a Palermo ma molte altre ritornarono nelle valli natie.

Questo fenomeno ha prodotto due fenomeni contrastanti.

Da un lato le commesse dei migranti avevano portato benessere alle famiglie e alle stesse comunità.

Ancora oggi le donne si tramandano da madre a figlia preziosi gioielli: orecchini, braccialetti, collane e altri piccoli capolavori dell’arte palermitana. Ogni paese aveva potuto costruire ed abbellire la propria chiesa con quadri, affreschi, oggetti di culto finemente lavorati dagli orafi palermitani tanto che oggi possiamo ammirare un patrimonio artistico di grande pregio per comunità di così piccole dimensioni e minori possibilità economiche. Anche il proliferare del nome Rosalia e la costruzione di cappelle in onore della santa protettrice della città di Palermo dà l’idea dell’evento. Dall’altro lato va segnalato il fenomeno di delinquenza, del disagio sociale dei giovani ritornati con le loro famiglie. Queste persone si trovarono a vivere in un villaggio chiuso in se stesso mentre prima vivevano in una città cosmopolita. Non è un caso se i grandi festeggiamenti per Santa Rosalia siano poi stati aboliti, in quanto fonte di disordini, molestie ed ubriachezza.

Ritornando sul contenuto del libro, la Pellegrini quale esperta in arte orafa, prende in considerazione vari tipi di  monili in corallo, in oro e argento: collane, orecchini, braccialetti, anelli e poi rosari, medaglioni devozionali per un totale di 240 gioielli catalogati. 

L’autrice “ci regala” anche preziose ricostruzioni del costume locale. Qesto emerge dai documenti storici d’archivio, soprattutto gli inventari allegati agli atti notarili, le "schelfe", cioè gli elenchi della biancheria (lenzuola, fazzoletti in tela o seta, calze) provenienti da Palermo, delle vesti e dei gioielli che costituivano i corredi delle spose. Il culto di santa Rosalia lasciò tracce anche  nell’abbigliamento. L’abito tradizionale indossato dalle donne dell’Alto Lario almeno fino all’inizio dell’Ottocento, noto come il costume della "Moncecca" (nome affibbiato alle montanare delle Tre Pievi), nella forma originaria era, infatti, simile al saio eremitico della santa.