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Riscoperte

Leonardo, il Cenacolo e i cenacoli

Dalla Pinacoteca Ambrosiana alla Brianza, alla scoperta delle copie del capolavoro vinciano. Un itinerario in occasione del Congresso eucaristico nazionale di Ancona.

di Luca FRIGERIO

1 Settembre 2011

Il Cenacolo di Leonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie a Milano è uno dei vertici della pittura di tutti i tempi. E non soltanto di quella sacra. In questa sua Ultima Cena, il maestro toscano sceglie di rappresentare il momento in cui Gesù annuncia che sarà tradito da uno dei discepoli. Più precisamente: è l’istante esatto che segue quella dichiarazione, l’istante cioè in cui si scatenano le diverse reazioni degli apostoli, ma prima dell’identificazione del traditore.

Leonardo dispone i Dodici ai lati di Gesù, sei per parte, suddividendoli in quattro gruppi composti ognuno da tre personaggi. Ciascun apostolo, posto di fronte alla notizia del tradimento, ha una reazione diversa, anche in relazione al profilo caratteriale e alle differenti qualità personali, così come si può desumere dai vangeli e come è stato tramandato dalla tradizione agiografica. L’effetto è straordinario. Perchè se a prima vista questa composizione sembra costruita in modo libero e naturale, casuale perfino, essa riflette in realtà una disposizione accuratamente studiata e attentamente meditata, che tiene conto fin nei minimi dettagli dell’associazione dei discepoli nel suo complesso, ma anche dei rapporti fra l’uno e l’altro e fra tutti loro, in una scansione ritmica, quasi musicale, dai toni tragici e commoventi.
 

Genio e libertà

Leonardo termina probabilmente la sua opera nelle prime settimane del 1498. Il maestro aveva dunque impiegato almeno quattro anni a realizzare il suo capolavoro. Quattro anni intensi, forse non privi di ripensamenti (come i vari disegni preparatori sembrano suggerire), sicuramente ricchi di imprese e attività le più svariate per il nostro artista e scienziato, abituato a lavorare su più fronti e su più progetti, contemporaneamente. Così, nel refettorio delle Grazie, Leonardo «soleva, dal nascente sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere», come potè osservare Matteo Bandello, ospite e nipote del superiore dei domenicani milanesi in quei mesi. Mentre altre volte, annotava ancora il novelliere, se ne veniva al convento per dare soltanto «una o due pennellate a quelle figure, e di subito partirsi ed andare altrove».

È il modo di procedere, insomma, di un artista di genio, che non può e non vuole piegarsi alle rigidità di una produzione “standardizzata”, ma che con atteggiamento estremamente moderno sceglie i propri tempi e si lascia guidare soltanto dalla propria creatività. Per questo Leonardo non poteva sottostare alla “tirannia” dell’affresco, una tecnica che richiede rapidità e costanza, e che non ammette variazioni in corso d’opera. Per lavorare più liberamente, dunque, nel refettorio domenicano egli adottò una tecnica nuova e sperimentale, cioè da lui stesso inventata, una specie di tempera su pietra, da stendere su un fondo robusto, ottenuto impastando gesso, pece e mastice, per poi ripassare, infine, il tutto a olio.
 

La copia del cardinal Federico…

Una soluzione geniale. Se solo avesse funzionato… Perchè anche i geni commettono errori. Il colore, infatti, anche a causa di una situazione ambientale non certo ottimale, cominciò ben presto a staccarsi, innescando un processo di deterioramento rapido quanto irreparabile. Nel 1517, infatti, neppure vent’anni dopo la sua conclusione, il Cenacolo di Leonardo appare già rovinato. A metà del secolo, il pittore Giovanni Battista Armenini lo definisce addirittura «mezzo guasto». E così anche lo stesso Vasari, che in visita alle Grazie nel maggio del 1556, lo ricorda «tanto male condotto, che non si scorge più se non una macchia abbagliata».

Cosicchè, fin dall’inizio, alle lodi universali per quest’opera straordinaria si unirono la preoccupazione per il suo degrado e il rimpianto della sua originaria, fugace bellezza perduta. È anche per questo, oltre che per l’ammirazione unanime che questa Ultima Cena suscitò nel mondo dell’arte, che da subito cominciarono a diffondersi riproduzioni, più o meno fedeli, dell’originale leonardiano. Come fece, ad esempio, il cardinale Federico Borromeo, successore del cugino Carlo alla guida della diocesi di Milano, che, vedendo frustrato ogni suo tentativo di salvare il dipinto, attorno al 1615 cercò almeno di perpetuarne il modello affidando ad Andrea Bianchi detto ilVespino la realizzazione di una copia a grandezza naturale (per quanto riguarda la “fascia” degli apostoli): replica di grande valore, che ancor oggi possiamo ammirare presso quella Pinacoteca Ambrosiana fondata dallo stesso prelato.
 

…quella di San Lorenzo alle Colonne…

Molte sono le opere ispirate al Cenacolo vinciano, anche e soprattutto in terra ambrosiana, come il dipinto di Cesare Magni conservato a Brera o l’affresco del Fiammenghino esposto al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Ma fra le tante ne segnaliamo in particolare due, poco note ma di sicuro interesse.

La prima si trova all’interno di San Lorenzo Maggiore a Milano, posizionata a sinistra rispetto al portone centrale. L’affresco venne scoperto alla fine del XIX secolo sotto uno spesso strato di calce (presenta infatti i caratteristici e deturpanti segni delle picchiettature): si tratta di un’Ultima Cena di gusto “popolaresco”, quasi naïf, dai colori accesi e vivaci, ma assai fedele al capolavoro di Leonardo. Talmente fedele che, in passato, fu perfino ipotizzato, temerariamente, che il dipinto fosse una sorta di “prova” eseguita dallo stesso maestro toscano prima del suo intervento nel refettorio domenicano! Ma, al di là di quest’idea assurda, resta il fatto che il dipinto della basilica della Colonne potrebbe rappresentare proprio la prima copia del Cenacolo delle Grazie a noi nota, databile cioè ai primissimi anni del Cinquecento.
 

…e quella di Alzate Brianza

La seconda opera si trova invece ad Alzate Brianza, tra Erba e Cantù, nella chiesa di San Giorgio. Attribuita al pittore Sigismondo De Magistris e recante la data 1531, questa Ultima Cena brianzola appare eseguita con maggiore libertà rispetto al modello leonardiano, e tuttavia vi si avvicina molto per spirito e ritmo compositivo. Ma del resto non può essere diversamente, perché, come aveva ben intuito lo stesso Goethe, il Cenacolo di Leonardo «è assolutamente unico e non vi è nulla che possa essergli paragonato».