Un raggio di luce penetra dall’alto a rischiarare le danze degli angeli musicanti, a illuminare le letture dei Padri della Chiesa. È un attimo, un soffio soltanto, ma il marmo dell’Arca di san Pietro Martire si ravviva, l’interno della Cappella Portinari risplende, e vibra: un’armonia di linee e di forme, dove il gusto toscano si fonde con lo stile lombardo.
Fu il fiorentino Pigello Portinari, del resto, a volere questa cappella presso l’antica basilica di Sant’Eustorgio a Milano, poco dopo la metà del Quattrocento. Nel capoluogo lombardo era stato inviato dai Medici, per gestire il banco a cui gli Sforza si sarebbero rivolti per i loro prestiti e le loro spese. Sembrava un affare, ma si rivelò un disastro: i duchi di Milano attingevano a piene mani, ma a restituire non ci pensavano affatto…
I denari, tuttavia, non erano l’unico interesse del toscano. Pigello era uomo sensibile all’arte, e di fede profonda. Verso san Pietro Martire, poi, il banchiere nutriva un’autentica devozione, nata già a Firenze, dove il domenicano aveva predicato e, per qualche tempo, vissuto. Il corpo dell’inquisitore assassinato, e subito canonizzato, riposava allora già da due secoli nella basilica di Sant’Eustorgio, custode fedele di antiche memorie ambrosiane. Ma il Portinari chiese di poter erigere in onore del santo un nuovo oratorio, grande, bello, ornato di splendidi affreschi: la Cappella di Pietro Martire e, nello stesso tempo, il mausoleo del finanziere.
Non sappiamo a chi venne affidata questa impresa architettonica, ma è probabile che Pigello si sia rivolto ad un maestro lombardo, raccomandandogli tuttavia di seguire i modelli fiorentini che gli erano cari, come la sagrestia vecchia in San Filippo, capolavoro del Brunnelleschi. Un omaggio alla sua città e ai Medici suoi signori, e, per Milano, un’autentica rivoluzione culturale, l’irrompere di quel gusto e di quelle idee rinascimentali che da lì a pochi anni Leonardo e Bramante avrebbero fatto trionfare alla corte sforzesca.
A tal «Vincenzo», invece, le fonti assegnano gli affreschi della Cappella. Nulla aggiungono, se non che l’artista era all’epoca «vecchio in quell’età raro». Ma non vi sono dubbi: quest’anziano pittore è certamente il Foppa. Suoi sono i volti, severi ed espressivi. Suoi sono i colori, luminosi e trasparenti. Suoi sono i paesaggi, così autenticamente lombardi. E poi di certo il Portinari ben lo conosceva, dato che già gli aveva commissionato la decorazione del Banco Mediceo milanese.
Vecchio in realtà d’esperienza più che d’età, Vincenzo Foppa lavora nella Cappella Portinari con una dedizione assoluta, realizzando qui la sua opera più grande. Guidato dagli stessi frati domenicani, il bresciano interpreta con raro senso narrativo alcuni episodi della vita di san Pietro Martire, sottolineandone il suo impegno nella lotta contro l’eresia e le sue doti taumaturgiche. Raggiungendo il culmine nella scena del martirio, dove il Credo mormorato diventa parola scritta col sangue che sgorga dalla ferita mortale: non c’è tragedia, nonostante l’orrore dell’assassinio, ma serena, altissima professione di fede.
Confortato dalle trame foppesche, il nostro sguardo scivola ora lungo le rosse decorazioni in cotto, scorre sui rilievi in pietra del sottarco, soffermandosi infine sull’Arca marmorea che accoglie le spoglie di Pietro da Verona. E si rimane come abbagliati da tanta bellezza. Animata da una folla di personaggi, impreziosita da dettagli miniaturistici che le danno colore, la tomba del martire domenicano ha anch’essa paternità toscana, pur essendo, rispetto alla Cappella eretta dal Portinari, di oltre un secolo più antica. Il suo autore, Giovanni Balduccio di Pisa, dovette giustamente andar fiero di un simile lavoro, al punto di firmarlo e datarlo («1339», vi leggiamo). E non era prassi diffusa, in quei tempi.
Osserviamo con attenzione questo monumento. Modellato in marmo di Carrara, il sarcofago è sorretto da otto pilastrini in marmo rosso di Verona, ai quali sono addossate altrettante statue raffiguranti le Virtù. Sul coperchio, a forma di tronco di piramide, svetta un tabernacolo a cuspide che sovrasta l’immagine di Maria in trono, accompagnata da san Pietro Martire e san Domenico di Guzman. Sui lati della cassa, invece, sono scolpiti otto rilievi con le storie del frate inquisitore, intervallate da statuine raffiguranti alcuni Apostoli, i Dottori della Chiesa e il vescovo Eustorgio. Sopra gli spioventi, anch’essi decorati a forte rilievo con figure di santi, prelati e principi, si elevano infine gli otto cori angelici.
Il numero “otto”, ci si sarà resi conto, torna qui con una insistenza che non può essere affatto casuale, soprattutto se si considera che, già simbolo battesimale, esso è stato legato fin dall’insegnamento di Ambrogio al concetto di “rinascita a nuova vita” e, quindi, a quello di “resurrezione”.
L’intera iconografia dell’Arca, d’altra parte, è di alto interesse e di complesso impegno: storia, leggenda e simbologia religiosa si mescolano e alternano secondo il costume medievale, con attento riferimento alla personalità e alle vicende del martire celebrato, e tenendo insieme elevata dottrina e devozione popolare. Un’opera, insomma, che doveva parlare ai dotti, ma anche alla gente semplice. Che doveva essere summa teologica, ma allo stesso tempo esempio catechetico di immediata comprensione.
Che poi Giovanni Balduccio non abbia eseguito l’opera da solo, ma si sia giovato di aiuti di bottega, è cosa ormai accertata. Egli, il maestro, dovette tenere per sé le parti più importanti, quelle di maggior onere esecutivo e di più evidente impatto visivo. Ma i suoi allievi non furono in fondo da meno: forse non così geniali, ma più concreti, attenti a nulla tralasciare nelle fitte formelle del sarcofago. In tutte le figure, comunque, ecco volti dai lunghi occhi a mandorla e zigomi marcati, mani carnose e dalle dita uniformi: la cifra più evidente dello stile gotico secondo l’interpretazione pisana.
Balduccio del resto giunse a Milano negli stessi anni di Giotto, e anche questo non è un caso. Seppur in maniera diversa, infatti, entrambi portarono nelle terre dei Visconti la calorosa pienezza espositiva dei toscani: l’uno in scultura, l’altro in pittura.