Per tanti anni il senso di colpa è stato considerato un tabù. Chiunque aspirasse ad appartenere al club delle persone colte, intelligenti, moderne, mentalmente aperte ed emancipate aveva l’obbligo di liberarsi dai sensi di colpa, frutto di una società bigotta e repressiva.
È dunque un segnale importante la pubblicazione da parte dello psicoterapeuta di formazione junghiana Paolo Ferliga del volume intitolato “Attraverso il senso di colpa. Per una terapia dell’anima” (San Paolo, Cinisello Balsamo 2010).
L’analisi del concetto di colpa parte dal primo testo filosofico giunto fino a noi e noto con il nome di “Frammento di Anassimandro”. La comparsa del senso di colpa nella riflessione umana non ha un significato esclusivamente cronologico, bensì archetipico. Scrive Ferliga (p. 41):
[…] come gli enti, anche gli uomini devono differenziarsi dall’indeterminato per diventare se stessi, per individuarsi. Ogni individuo è tale se si separa dalla psicologia della massa, dalla dimensione collettiva nella quale rischia sempre di confondersi, di perdere quei confini che lo fanno unico e diverso dagli altri. L’individuazione dell’uomo è la colpa che richiede di essere pagata e che, sembra dire Anassimandro, va espiata nella reciprocità dell’incontro con l’altro.
Il senso di colpa è dunque il prezzo necessario da pagare per essere se stessi, per essere uomini e donne pienamente realizzati. Necessario, dunque: doloroso ma necessario, altro che retaggio inutile e dannoso di una società repressiva.
L’analisi di Ferliga prosegue sul versante storico fino a giungere al momento cruciale dell’evoluzione del concetto di colpa: il Cristianesimo. Cristo espia la colpa di tutti gli uomini pagando con la propria morte; la colpa diventa felix culpa, "O felice colpa, che ha meritato un tale e così grande Redentore!".
L’autore si sofferma poi opportunamente su una tendenza diffusa nella società contemporanea: la proiezione della colpa sull’altro. Questo atteggiamento viene percepito come una mancanza di responsabilità; Ferliga accentua la negatività della proiezione del senso di colpa come sbrigativo metodo per evitare la sofferenza necessariamente connessa con la colpa. La conseguenza di questa proiezione è, però, ancora più dannosa per l’integrità della persona. Negando il senso di colpa l’uomo cessa, in qualche modo, di essere tale; così si esprime infatti lo psichiatra Gaetano Benedetti (p. 169):
[…] indipendentemente da qualsiasi particolare ideologia e filosofia della colpa, l’uomo non può realizzare se stesso che nella coscienza della sua colpevolezza e che egli non è uomo intero senza tale consapevolezza.
Aggiunge di seguito Ferliga (ibidem):
La salute mentale e la possibilità di gioire della vita dipendono dunque, in buona misura, dalla capacità di integrare il vissuto della colpa. Solo in questo modo l’uomo può davvero sentirsi anche innocente.
Il senso di colpa, dunque, sebbene spiacevole, è necessario per la propria realizzazione umana. Forse non è un caso se la nostra società, che pare avere come unico obiettivo la ricerca del piacere e la conseguente fuga dalle sensazioni spiacevoli, tra le quali il senso di colpa, è in preda alla disperazione. Non essendo disponibile a pagare il prezzo della propria realizzazione, l’uomo contemporaneo si contorce nel suo intimo nella sofferenza di una vita senza senso. La ricerca del piacere fine a se stesso (e non come conseguenza di azioni virtuose e naturali) si trasforma in disperazione.
Sembra proprio il caso di esclamare con Sant’Agostino: “O felix culpa!”
Roberto Marchesini