Nella basilica di Sant’Ambrogio secondo incontro del ciclo diocesano di catechesi «Il buon seme chiamato a diventare grano». La riflessione del teologo don Cesare Pagazzi centrata sull’appartenenza

di Maurizio TREMOLADA
Responsabile Servizio giovani

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Accompagnati dal teologo padre Ermes Ronchi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria e priore della Comunità di San Carlo al Corso a Milano, e dalla testimonianza di Sonia Polvara, educatrice della parrocchia di S. Antonio Abate a Valmadrera, abbiamo iniziato il percorso di catechesi offerto a tutti i giovani della diocesi: «Il buon seme chiamato a diventare grano».

Nella prima serata, prendendo spunto dalla parabola del buon seme e della zizzania, icona biblica dell’anno pastorale, i giovani sono stati invitati da padre Ermes a riconoscere che anzitutto «C’è del buon seme nel mio campo»: «La parabola della zizzania e del buon grano mi ha cambiato la vita. Ho capito che ogni cuore è una zolla di terra capace di dare vita ai semi di Dio; che una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo; che il peso specifico del bene è più alto del peso del male; che la fede non è centrata sul paradigma del peccato, ma sul paradigma della pienezza. Io non sono i miei limiti, ma le mie maturazioni. Io non sono i miei difetti, ma le mie potenzialità. Non sono il mio peccato, ma il buon frutto che posso maturare domani».

Chi sono, dunque, i giovani? In una società che chiede di essere malleabili, flessibili, «liquidi», non possono che ritrovarsi con un’identità multipla, frammentata o addirittura disintegrata. Faticano a riconoscersi come figli, hanno perso i «padri» e tanto meno si riconoscono come figli di Dio. Sonia, nella sua testimonianza, ha parlato così dei ragazzi «difficili» che incontra nel lavoro di educatrice: «C’è un’altra possibilità al buttarsi via, è riconoscersi preziosi agli occhi di altri. C’è un’altra possibilità allo sprecare tempo perché non si sa cosa fare, è quella di vivere la vita in modo pieno. C’è un’altra possibilità al «tanto non cambia niente», è riconoscere che loro per primi sono il buon seme che può cambiare il mondo. E questa possibilità nasce dalla testimonianza di una vita fondata su Gesù. Solo così possono capire che c’è davvero un’altra possibilità allo sguardo negativo che hanno su loro: è lo sguardo di Gesù».

Intuiamo che l’identità non può prescindere dalle relazioni, dal «tu» della madre che ci ha generato alla famiglia nella quale siamo cresciuti, dagli amici agli affetti che quotidianamente viviamo, quello che siamo è frutto della nostra storia perché «nessun uomo è un’isola». Tuttavia questo non dice il tutto di noi. Essere figlio come il Figlio di Dio è, ci ha detto padre Ermes, «diventare sempre più somiglianti a Colui che è il somigliantissimo al Padre; qui non solo è la pienezza, ma lo sconfinare, per grazia, della nostra identità». Il campo allora non è soltanto il nostro cuore. Il campo è il mondo; il mondo delle relazioni e dei legami che ciascuno intesse e che aprono, soprattutto nel tempo della giovinezza, a grandi prospettive e promesse.

Alla domanda sull’identità, accostiamo quella sull’appartenenza: con chi sono? Qui c’è in gioco tanto della vita presente dei giovani, del futuro della Chiesa. Su questo chiederemo a don Cesare Pagazzi, teologo della Diocesi di Lodi, di accompagnarci nella prossima catechesi, che sarà giovedì 6 febbraio, alle 21, nella basilica di S. Ambrogio a Milano.

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