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Politica

Conoscere gli errori del passato per non farli più

Un po’ di storia. 1919-1924. Dal proporzionale al “listone” maggioritario

di Gianfranco GARANCINI

1 Ottobre 2019

Con la legge 15 agosto 1919, numero 1401, successivamente rifluita nel Testo Unico 2 settembre 1919, numero 1495, fu introdotto per la prima volta il sistema proporzionale nella legislazione elettorale italiana, che fino ad allora era stata caratterizzata dal sistema maggioritario, pur in vari modi articolato. I partiti di massa – il Partito Popolare fondato da don Luigi Sturzo in quello stesso 1919 sulla base della ricca e variegata tradizione dell’impegno sociale e politico dei cattolici e della dottrina sociale della Chiesa; il Partito Socialista, ben radicato da molti decenni, che tuttavia recava già in sé le tensioni e i germi ideologici che avrebbero portato poi (anche sulle insistenti pressioni del Comintern) alla scissione di Livorno e alla costituzione del Partito Comunista – proprio in forza del sistema proporzionale alle elezioni del 16 novembre 1919 presero il sopravvento, e nella nuova Camera il Ppi ebbe 100 deputati e il Psi 156, raggiungendo da soli – se l’avessero voluto – la maggioranza dei 508 rappresentanti della Nazione.

Il momento, in sé, non era affatto propizio. La situazione nel Paese era lacerata, le condizioni economiche erano a dir poco precarie, la stabilità delle istituzioni era rimessa in discussione quasi ogni giorno. Era facilmente prevedibile che ulteriori elementi di ingovernabilità si sarebbero aggiunti, proprio perché le spinte e controspinte sociali e politiche in cui si dibatteva l’Italia difficilmente, o per niente affatto, avrebbero trovato l’omogeneità (o comunque l’intesa) necessaria per formare una maggioranza in grado di sostenere un governo. Con il Paese scosso da scioperi, occupazioni di fabbriche, lotte nelle campagne, l’imperversare delle squadre fasciste – nelle quali già allignavano l’antisemitismo, la xenofobia, l’esaltazione della violenza che avrebbero avuto lunga storia, e che avevano in pratica campo libero e ampi sostegni da parte di chi vi vedeva l’unico baluardo contro la montante forza dei cattolici e dei socialisti, e l’unica bandiera del nazionalismo che lamentava la “vittoria mutilata” di dannunziana ispirazione – condizionò il Parlamento in maniera tale e così pesante da paralizzarne, in sostanza, la percezione politica e l’attività legislativa.

Alle elezioni anticipate, convocate da un ripescato Giolitti per il 15 maggio 1921, l’applicazione del sistema proporzionale segnò la definitiva sepoltura del “blocco d’ordine” moderato e centrista, fondato sul sistema dei “maggiorenti” e su quelli che oggi chiameremmo “poteri forti”, su cui Giovanni Giolitti (abilmente attraendo a sé anche frange di oppositori) aveva fondato la sua trentennale gestione del potere in Italia: la rappresentanza socialista passò da 156 a 123 deputati, ma entrarono per la prima volta in Parlamento 15 comunisti, figli della scissione di Livorno; i popolari passarono da 100 a 108, ed entrarono alla Camera 35 deputati fascisti. Ma anche questa volta i partiti di massa mancarono il loro appuntamento con la storia: a sinistra – inaugurando una serie di progressive scissioni che non è finita neppur oggi – al congresso di Livorno dello stesso 1921 il Partito Socialista aveva visto l’uscita polemica dei comunisti di Bordiga, Gramsci, Terracini, Bombacci (che poi sarebbe diventato fascista), e altri, secondo le direttive del comunismo internazionale; al centro i popolari stavano subendo una scissione – non formale ma sostanziale – tra quanti intendevano continuare la linea intransigente di Luigi Sturzo e quanti, invece, nutrendo più di una semplice simpatia, avrebbero inteso appoggiarsi al fascismo.

Il re – sfiduciando il “suo” capo del Governo, Luigi Facta, che avrebbe voluto porre lo stato d’assedio contro una (per altro piuttosto boschereccia) “marcia su Roma” – chiamò Benito Mussolini (che aveva “solo” 35 deputati fascisti, ma che ormai poteva godere del sostegno di molti, o intimiditi dalle squadre fasciste, o spaventati dalle oscure prospettive del Paese) e gli conferì la presidenza del Consiglio dei ministri. Il Mussolini – che nel discorso di insediamento alla Camera il 16 novembre 1922 aveva affermato «chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità» – con il suo Governo, formato da elementi della Destra e del Centro e tenuto in continua tensione dalla violenza delle squadre fasciste, si pose all’opera per modificare in senso autoritario la struttura e il funzionamento dello Stato, adottando una tattica di gradualità senza scatti traumatici, che gli consentì di assopire le residue resistenze dei moderati. Il primo Governo Mussolini ricevette così alla Camera 306 voti favorevoli contro 116, e al Senato 196 voti favorevoli contro 19; della compagine governativa fecero parte anche due ministri (Vincenzo Tangorra e Stefano Cavazzoni) e tre sottosegretari (Ernesto Vassallo, Fulvio Milani e Giovanni Gronchi) provenienti dal Ppi (dopo il IV congresso, dell’aprile 1923, la crisi interna portò al definitivo allontanamento della destra del partito, che si allineò sulle posizioni filo-fasciste; la residua pattuglia, dopo l’episodio dell’“Aventino”, ricadde sostanzialmente nell’insignificanza, fino al forzato scioglimento del novembre 1926).

Nel quadro di questa politica mussoliniana si rendeva necessaria anche una riforma elettorale che togliesse di mezzo tutti i “pericoli” che il sistema proporzionale varato nel 1919 presentava, soprattutto per chi avesse voluto – come Mussolini stesso aveva esplicitamente richiesto – governare con i “pieni poteri”. Sfruttando le persistenti divisioni (anche interne…) tra i partiti proporzionalisti e i nostalgici del collegio uninominale, con la legge 18 dicembre 1923, numero 2444 (la cosiddetta “legge Acerbo”, dal nome del sottosegretario che l’aveva seguita e formulata) fu raggiunto il risultato – voluto – di eliminare il sistema proporzionale in favore di un maggioritario più facilmente disponibile ad essere manovrato (e dominato) dal partito egemone, eliminando la divisione in collegi e istituendo un collegio unico nazionale. Ogni lista poteva presentare un numero di candidati pari ai due terzi di tutti i seggi in palio (ecco perché si parlò di “listone”), ma l’assegnazione dei seggi alla Camera dipendeva in modo decisivo dal premio di maggioranza elargito alla lista vincitrice: la lista vincitrice, che avesse conseguito almeno il 25% dei voti, avrebbe ottenuto i 2/3 dei 535 seggi disponibili, lasciando a tutte le altre di spartirsi i rimanenti 179, questa volta con il metodo proporzionale del quoziente. La “legge Acerbo”, presentata dal Gran Consiglio del Fascismo, che nel frattempo era stato “costituzionalizzato”, fu approvata dalla Camera (235 sì, 139 no: un solo “popolare” votò contro, il valtellinese Giovanni Merizzi) e dal Senato (165 sì e 41 no): quel Parlamento sancì così la propria stessa definitiva cancellazione come strumento di democrazia rappresentativa. Dalle elezioni del 6 aprile 1924 il “listone” fascista (nel quale erano confluiti anche un terzo di “volonterose collaborazioni”, come aveva detto Mussolini, provenienti dal Centro e dalla Destra) uscì con 356 seggi; il Ppi passò da 108 a 39; i socialisti da 123 a 46; i comunisti da 15 a 19. La silenziosa mutazione costituzionale era compiuta, e ora si poteva metter mano a quelle “leggi fascistissime” che avrebbero cambiato in senso autoritario e fascista il volto del Paese e della Nazione.

Ancora oggi, in Italia, si sta discutendo tra chi reclama a gran voce il “ritorno” al sistema maggioritario, e chi sottolinea i pregi democratici (e non solo le difficoltà aritmetiche) del sistema proporzionale. Non è che la storia sia sempre “maestra di vita”, come andava dicendo il giurista e filosofo romano Cicerone: ma la conoscenza delle brutture e degli errori del passato (specie se recente, come in questo caso) potrebbe aiutare a non commetterli più.

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