Sirio 19-25 marzo 2024
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Fine vita

Aiutare a morire non è sempre e comunque reato

La controversa sentenza della Corte costituzionale sul caso Dj Fabo

di Gian Marco ZANARDIavvocato cassazionista del Foro di Milano, docente di scienze giuridiche ed economiche e membro del dipartimento di filosofia e storia del liceo classico e scientifico Galileo Galilei di Legnano

9 Dicembre 2019

Ancora una volta una sentenza della Corte costituzionale che fa discutere. Questa volta si tratta però di una di quelle sentenze che toccano nel vivo le corde più sensibili della coscienza di tutti perché riguarda la morte ed in particolare l’aiuto al suicidio o, come anche si suol dire, il “suicidio assistito”. Il tema certo, per le sue evidenti e molteplici implicazioni etiche oltreché giuridiche, non può lasciare indifferenti. In gioco è l’essere umano prima ancora che il cittadino, la sua dignità, la sua centralità.

Il caso è quello del tesoriere dell’associazione “Luca Coscioni”, Marco Cappato, il quale si è prestato ad accompagnare in una clinica svizzera il disc jockey Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo, tetraplegico e cieco a causa di un incidente stradale che lo ha costretto a dipendere da un sondino per sopravvivere. Ai sensi dell’articolo 580 del codice penale è stato incriminato per averlo appunto agevolato nel suicidio: un reato punito con la reclusione da 5 a 12 anni; sanzione che implica, ai sensi dell’articolo 32 comma terzo del codice penale, l’interdizione legale dai pubblici uffici durante la sua applicazione e può altresì comportare la sospensione della “responsabilità genitoriale”. La Corte costituzionale, investita della questione di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale, ne ha con sentenza affermato l’incostituzionalità laddove esso non prevede la sua inapplicabilità a casi limite come quello di specie. Ha inoltre espressamente auspicato che il legislatore intervenga quanto prima a disciplinare la materia. La Consulta si è dunque espressa de iure condito ed ha, per così dire, rilanciato de iure condendo. Questa sentenza del “Giudice delle leggi” di fatto anticipa quello che sarà l’esito della sentenza che, nello specifico, sarà pronunciata sul caso Cappato.

A questo punto sono in molti a domandarsi come si configuri, all’indomani di una siffatta sentenza, l’assetto normativo della materia e se la vita sia ancora valore centrale della nostra Costituzione. Va innanzi tutto evidenziato che il giudicato di tale sentenza non ha messo in discussione la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Essa si è piuttosto limitata ad affermare l’incostituzionalità della mancata previsione di alcuna eccezione alla regola sancita; non ha insomma rilevato la necessità costituzionale di una norma diversa, se non addirittura di segno opposto rispetto a quella vigente, ma ha stabilito un’eccezione alla regola stessa con ciò, appunto, confermandola in asse con la nostra Costituzione. Aiutare qualcuno a suicidarsi viene dunque confermato come reato, peraltro grave, contro la persona e, più precisamente secondo l’inquadramento del codice penale, contro la vita e l’incolumità individuale al pari dell’istigazione al suicidio punita ai sensi del medesimo articolo 580 del codice penale ed altresì al pari dell’omicidio del consenziente punito ai sensi dell’articolo 579 del codice penale. La vita si conferma dunque un valore supremo su cui la Costituzione italiana si fonda. Va peraltro aggiunto come non sia neppure una novità che questo valore supremo patisca limitazioni: si pensi al caso emblematico della legittima difesa. Alla luce di ciò, il sollecito che la Consulta rivolge al legislatore affinché regoli la materia non sembra si possa intendere come un invito ad introdurre il libero supporto al suicidio come regola generale del nostro ordinamento; se infatti, come emerge dal giudicato della Consulta, è costituzionale la regola sancita dall’articolo 580 del codice penale, la regola opposta certamente non lo sarebbe. Quell’invito sembra piuttosto giustificarsi in quanto la Corte, avendo da una parte ammesso un’eccezione alla regola sancita ed essendo però anche consapevole dei rischi che quell’eccezione comporta, ha dall’altra avvertito l’urgenza di un intervento mirato del legislatore a tutela di soggetti deboli che in qualche modo, pur in certe condizioni critiche, potrebbero essere indotti ad optare per porre fine alla loro vita; non può infatti sfuggire il rischio di un condizionamento psicologico indebito su soggetti labili in quanto lucidamente si trovano a vivere certe gravissime condizioni o il rischio di interpretazioni di comodo della loro volontà. C’è insomma il rischio che i paletti da essa fissati possano essere aggirati e si tratta di paletti o condizioni rigorose che la Corte costituzionale ha posto contro ogni strumentalizzazione, proprio «per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018».

Ciò posto, riguardo al merito della sentenza, essa non sembra a chi scrive condivisibile. Peraltro, il caso della legittima difesa, anch’esso eccezione alla tutela della vita, non è affatto assimilabile al caso dell’aiuto al suicidio. Nella legittima difesa c’è una necessità che non dà alternative e non è affatto presupposta l’idea secondo cui anticipare la morte possa essere per il bene della persona o addirittura per amore della persona stessa come invece è nel caso dell’aiuto al suicidio. Qui si asseconda una volontà di morte. La differenza non può sfuggire. Con questa eccezione (perché di questo si tratta: di un’eccezione), si introduce surrettiziamente il concetto del “bene” della morte anticipata, il concetto che in certi casi solo una scelta di morte sia dignitosa. Si presta quindi a dar la stura ad una deriva utilitaristica che rischia di sostituire, anche nel nostro ordinamento, il bene vita con il bene morte ogniqualvolta un soggetto debole e improduttivo diventa un peso per la famiglia e per la società. Emblematico che già, anche in Parlamento, si invochi come “conquista civile” una riforma che affermi e tuteli il diritto di morire e di togliere la vita depenalizzando non solo l’aiuto al suicidio, ma anche reati come l’istigazione al suicidio e l’omicidio del consenziente. Al di là delle intenzioni dei giudici costituzionali dunque, la cultura dell’utilitarismo e della morte (in quanto il valore della vita si risolverebbe solo nella sua utilità), la cultura del soggettivismo dove l’io si pone a criterio e misura di tutto, trova in questa sentenza un valido punto di forza.

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