Via Padova ha cento facce. Da sempre simbolo del degrado milanese, ma anche fucina di tante esperienze di integrazione, oggi sta diventando pure il quartiere delle avanguardie hipster, una Soho nostrana che i giornali chiamano NoLo («North of Loreto»). Proprio a piazzale Loreto, due settimane fa, l’omicidio di un sudamericano ci ha ributtato in faccia il lato oscuro di via Padova. Cosa ne pensa chi quella strada la percorre ogni giorno?
Don Davide Caldirola, parroco della Comunità pastorale Santa Maria Beltrade – San Gabriele Arcangelo (nel cui territorio si trova il negozio da parrucchiere teatro del fatto di sangue), ci racconta una realtà complessa: «Proprio in questi giorni abbiamo visitato il condominio in questione per le benedizioni natalizie. Abbiamo trovato tante porte chiuse, ma anche tanta accoglienza. Perfino qualche musulmano ci ha aperto la porta, ringraziandoci di essere passati. Non fermiamoci alla superficie, in via Padova c’è più bene di quanto si pensi». Secondo don Caldirola, il problema non sono le etnie, ma il degrado sociale: «In condizioni di vivibilità al di là dell’immaginabile, con 15 persone accampate in un solo appartamento e senza controllo, è naturale che prima o poi qualcosa succeda. Ci dovremmo chiedere a chi appartengono questi appartamenti. Come siamo arrivati a questi sovraffollamenti?». Il problema è anche mediatico, secondo il parroco: «Ho l’impressione che, quando succede qualcosa in via Padova, allora il problema è via Padova; se succede in un’altra zona di Milano, è un generico problema di criminalità. Dopo la rissa sotto il Palazzo della Regione, non ho letto articoli che demonizzassero quel quartiere. Non voglio fare il buonista: la criminalità c’è, ma è innegabile che i media sottolineino sempre il peggio. E questa è un’impressione molto diffusa tra gli abitanti del quartiere».
Abitanti che però non hanno accolto unanimemente l’idea avanzata dal sindaco Sala di portare l’esercito in via Padova. Don Franco Luciano Amati, parroco di Santa Maria Rossa in Crescenzago, vive l’ultimo tratto della via, quello relativamente più tranquillo, ma come decano di Turro ha il polso della situazione complessiva. «Penso che, dove c’è degrado, ci sia bisogno di controllo, ma non militare. I cittadini si sentirebbero più rassicurati dalla presenza quotidiana delle forze dell’ordine – il vigile di quartiere di cui si parla sempre -, piuttosto che da un presidio militare di stanza in un luogo fisso». Don Amati sottolinea anche le tante presenze positive nel quartiere: «Penso per esempio alla Casa della carità, modello di una solidarietà che si esprime in forme culturali e di accoglienza. Quando arriva un ospite in casa tua, accetti i suoi doni e stai attento ai suoi bisogni, offrendogli quello che hai. Penso sia questa la chiave dell’incontro tra diversi: che ognuno condivida ciò che ha di bello e positivo, riconoscendo il valore dell’altro».