Cosa scatta nella mente di un ragazzo giovanissimo, appena quindicenne, per spingerlo a uccidere? È questa la domanda assillante dopo l’omicidio di un’anziana residente nel quartiere Vigentino a Milano per mano di un suo ex vicino di casa. Il giovane ha subito confessato il delitto alla madre, che ha chiamato le forze dell’ordine. Ora è in attesa di convalida dello stato di fermo al Beccaria.
Don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile e fondatore della Comunità Kayros, avrà a breve un incontro con il ragazzo. «Quello che posso dire senza conoscere ancora la persona è che al Beccaria, ma ho l’impressione in tutta Italia, i casi simili sono in aumento -spiega -. Per fortuna parliamo di percentuali ancora basse, ma indubbiamente sono casi eclatanti, che scuotono le coscienze».
Mancanza di empatia
Un fenomeno che il sacerdote si spiega così: «Credo che alla base, nella psiche di questi ragazzi, ci sia l’idea che la vita umana non sia poi così importante. Io li definisco analfabeti emotivi e sentimentali: mancano di empatia, non capiscono, né il dolore che provocano, né il disvalore dei propri gesti. Manca completamente in loro un senso della vita, della socialità e della comunità. Sono molto individualisti e per le loro necessità impellenti sono disposti a tutto. Il problema è che hanno anche un’impulsività che non conosce limiti e questo li espone ad agìti anche molto gravi».

Questo ultimo aspetto può essere complicato dall’uso di sostanze stupefacenti e di alcol, che «alterano la percezione di sé e dell’altro» e, come sembra nel caso in questione, anche dal disagio mentale: «I dati che giungono dalle neuropsichiatrie – spiega Burgio – ci dicono che le patologie psichiatriche sono in aumento tra i giovani. Insomma, dobbiamo fare i conti con un malessere diffuso che porta a compiere gesti non propriamente consapevoli. In alcuni casi si è effettivamente di fronte a una incapacità di intendere e volere, che poi porta all’assoluzione».
Non sempre queste situazioni psichiatriche vengono intercettate per tempo e curate e questo ci parla di una società assente, come conferma Burgio: «La mancanza di una rete sociale è un tratto comune a tante di queste storie. Spesso sono ragazzi molto soli, che si trovano ad affrontare tante difficoltà, a cominciare da quelle familiari». D’altra parte, è anche vero che è difficile parlare con loro: «Spesso sono molto chiusi, è difficile che riescano a verbalizzare, anche perché non hanno fiducia nella capacità di aiuto degli adulti. L’adulto è estromesso dalla loro vita, non è visto come un’autorità di riferimento, ma è solo strumentale ai loro bisogni: se non è più utile viene “fatto fuori”, simbolicamente e, purtroppo, in alcuni casi anche materialmente».
Che fare?
Come intervenire in questo vuoto umano e sociale? «Nell’ambito della giustizia minorile, anche nella Comunità Kayros, cerchiamo di favorire i percorsi riparativi – racconta Burgio -. Poter venire a contatto con il dolore dell’altro, che sia la stessa vittima dei propri reati o un’altra vittima, di un reato simile, è una enorme possibilità. In una società in cui la narrazione più in voga è quella della competizione, della forza e dell’esibizione di sé, è importante che i ragazzi siano portati “dentro” le situazioni, altrimenti non le percepiscono».
Questo vale per chi un reato l’ha commesso, ma anche a livello preventivo, sottolinea Burgio: «Già in ambito scolastico si evidenziano condotte violente, anche a livello verbale, che possono andare in escalation se non affrontate. Sono episodi che non vanno occultati e neanche solo puniti: è importante aiutare i ragazzi a capire le conseguenze dei loro gesti. La scuola, le società sportive e in generale le agenzie educative devono mettere in atto strategie per stare dentro queste dinamiche tra coetanei e aiutare i ragazzi a leggerle».
E i genitori, quali strumenti hanno a disposizione per educare all’empatia? «Anzitutto devono viverla – suggerisce Burgio -. Un figlio apprende anche da come il genitore si comporta nell’affrontare i conflitti, non solo a livello familiare». E, nella tragedia, un genitore può coprire, scappare o, come la mamma del ragazzo protagonista del fatto al Vicentino, denunciare: «Un gesto difficile e doloroso – conclude Burgio -, che può sembrare un’azione punitiva, ma che in realtà è un atto di amore, di cura e di aiuto, perché apre al figlio la strada del recupero».




