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Ricerche

Giovani e violenza mediatica

Due esperimenti, pubblicati in questi giorni, mostrano una correlazione tra la l'abitudine a videogichi e ai film violenti� e una certa�lentezza� nel rispondere alle�richieste di aiuto -

Marco DERIU Redazione

23 Febbraio 2009
RAGAZZI E BAMBINI DAVANTI A VIDEOGIOCHI, ANCHE TIPO SALA GIOCHI

Uno studio pubblicato in questi giorni presenta dati che non lasciano tranquilli. Primo esperimento, realizzato su 320 studenti. Dopo aver utilizzato per 20 minuti i videogiochi i giovani assistono a un violento litigio fra due persone (simulato da due attori), con una delle due che si sloga la caviglia e urla di dolore, chiedendo aiuto. I ragazzi che hanno giocato a “3D Pinball” impiegano mediamente 16 secondi per avvicinarsi alla vittima e soccorrerla; quelli che hanno giocato a “Mortal Kombat” hanno bisogno di molto più tempo (73 secondi) per intervenire e portare soccorso. Come si evince dai rispettivi titoli, il primo è un innocuo esercizio di abilità e riflessi, il secondo è un gioco in cui si combatte fino alla morte (virtuale).
Secondo esperimento, compiuto su 160 persone. Dopo aver assistito alla proiezione di un film al cinema, si trovano di fronte a una giovane donna (un’attrice che finge) con entrambe le caviglie bendate, alla quale sfugge di mano la stampella. Lei cerca di recuperarla, ma da sola non riesce. Anche in questo caso, si differenzia il comportamento di due gruppi. Coloro che hanno assistito a un film con contenuti violenti impiegano il 26% del tempo in più per aiutare la persona in difficoltà, rispetto a quanti hanno invece assistito alla proiezione di una commedia.
Queste due prove simulate hanno spinto un gruppo di ricercatori statunitensi a utilizzare l’espressione “piacevolmente insensibile” (“confortably numb”) per definire lo stato d’animo anestetizzato di chi si espone in maniera prolungata a film e giochi violenti, perdendo di conseguenza la capacità di reagire prontamente alle difficoltà del prossimo nella vita reale. Il numero di partecipanti è ridotto e le generalizzazioni sono sempre arbitrarie, ma i risultati della ricerca pubblicati sull’ultimo numero di “Psychological Science” hanno riaperto il dibattito sugli effetti che la violenza rappresentata dai media può generare, in particolare sui soggetti più giovani o meno attrezzati dal punto di vista cognitivo.
Il problema non riguarda soltanto i videogame o i film, anche se alcuni di essi non dovrebbero essere destinati ai più giovani. Da questo punto di vista, è senz’altro da scoraggiare l’eccessivo ricorso a scene violente nei film e l’abuso di videogame da parte dei più giovani. È dimostrato che i giochi elettronici possono creare una effettiva dipendenza patologica, che nei casi più gravi rende necessaria una vera e propria terapia di disintossicazione. E di squilibrati che dopo la visione di un film violento hanno emulato realmente le feroci imprese dei protagonisti sono piene le cronache. Se uno spettatore sceglie di andare a vedere un film violento, nel momento in cui entra al cinema sa già cosa lo aspetta. Lo stesso avviene per chi decide di caricare sulla sua consolle elettronica un gioco in cui dovrà fare la parte di un personaggio impegnato in un combattimento mortale; finito il film e terminato il gioco, si ritorna nella realtà di tutti i giorni. In qualche modo, dunque, c’è una sorta di predisposizione all’eventuale assuefazione e molta responsabilità è nostra.
La questione diventa ancora più inquietante quando la finzione viene utilizzata per raccontare la realtà vera e propria, quella che è oggetto privilegiata dalle testate informative. I giornali rappresentano l’attualità violenta e la cronaca nera attraverso uno stile narrativo romanzato, tipico della letteratura di finzione. I notiziari televisivi e le trasmissioni di (presunto) approfondimento informativo colmano il vuoto di immagini realizzando finti filmati ad hoc per supportare visivamente le notizie vere. Generi quali l’“infotainment” e la “docu-fiction” mescolano disinvoltamente la realtà e la fantasia, confondendo la percezione del pubblico. In questi casi è ancora più difficile distinguere il mondo vero dal mondo finto e orientare di conseguenza i propri comportamenti.
Un bell’esame di coscienza da parte dei produttori di film e videogiochi violenti avrebbe effetti salutari. A patto che coinvolga anche i giornalisti, i pubblicitari, gli autori televisivi e tutti i comunicatori professionisti che animano il mondo dei media. Uno studio pubblicato in questi giorni presenta dati che non lasciano tranquilli. Primo esperimento, realizzato su 320 studenti. Dopo aver utilizzato per 20 minuti i videogiochi i giovani assistono a un violento litigio fra due persone (simulato da due attori), con una delle due che si sloga la caviglia e urla di dolore, chiedendo aiuto. I ragazzi che hanno giocato a “3D Pinball” impiegano mediamente 16 secondi per avvicinarsi alla vittima e soccorrerla; quelli che hanno giocato a “Mortal Kombat” hanno bisogno di molto più tempo (73 secondi) per intervenire e portare soccorso. Come si evince dai rispettivi titoli, il primo è un innocuo esercizio di abilità e riflessi, il secondo è un gioco in cui si combatte fino alla morte (virtuale).Secondo esperimento, compiuto su 160 persone. Dopo aver assistito alla proiezione di un film al cinema, si trovano di fronte a una giovane donna (un’attrice che finge) con entrambe le caviglie bendate, alla quale sfugge di mano la stampella. Lei cerca di recuperarla, ma da sola non riesce. Anche in questo caso, si differenzia il comportamento di due gruppi. Coloro che hanno assistito a un film con contenuti violenti impiegano il 26% del tempo in più per aiutare la persona in difficoltà, rispetto a quanti hanno invece assistito alla proiezione di una commedia.Queste due prove simulate hanno spinto un gruppo di ricercatori statunitensi a utilizzare l’espressione “piacevolmente insensibile” (“confortably numb”) per definire lo stato d’animo anestetizzato di chi si espone in maniera prolungata a film e giochi violenti, perdendo di conseguenza la capacità di reagire prontamente alle difficoltà del prossimo nella vita reale. Il numero di partecipanti è ridotto e le generalizzazioni sono sempre arbitrarie, ma i risultati della ricerca pubblicati sull’ultimo numero di “Psychological Science” hanno riaperto il dibattito sugli effetti che la violenza rappresentata dai media può generare, in particolare sui soggetti più giovani o meno attrezzati dal punto di vista cognitivo.Il problema non riguarda soltanto i videogame o i film, anche se alcuni di essi non dovrebbero essere destinati ai più giovani. Da questo punto di vista, è senz’altro da scoraggiare l’eccessivo ricorso a scene violente nei film e l’abuso di videogame da parte dei più giovani. È dimostrato che i giochi elettronici possono creare una effettiva dipendenza patologica, che nei casi più gravi rende necessaria una vera e propria terapia di disintossicazione. E di squilibrati che dopo la visione di un film violento hanno emulato realmente le feroci imprese dei protagonisti sono piene le cronache. Se uno spettatore sceglie di andare a vedere un film violento, nel momento in cui entra al cinema sa già cosa lo aspetta. Lo stesso avviene per chi decide di caricare sulla sua consolle elettronica un gioco in cui dovrà fare la parte di un personaggio impegnato in un combattimento mortale; finito il film e terminato il gioco, si ritorna nella realtà di tutti i giorni. In qualche modo, dunque, c’è una sorta di predisposizione all’eventuale assuefazione e molta responsabilità è nostra.La questione diventa ancora più inquietante quando la finzione viene utilizzata per raccontare la realtà vera e propria, quella che è oggetto privilegiata dalle testate informative. I giornali rappresentano l’attualità violenta e la cronaca nera attraverso uno stile narrativo romanzato, tipico della letteratura di finzione. I notiziari televisivi e le trasmissioni di (presunto) approfondimento informativo colmano il vuoto di immagini realizzando finti filmati ad hoc per supportare visivamente le notizie vere. Generi quali l’“infotainment” e la “docu-fiction” mescolano disinvoltamente la realtà e la fantasia, confondendo la percezione del pubblico. In questi casi è ancora più difficile distinguere il mondo vero dal mondo finto e orientare di conseguenza i propri comportamenti.Un bell’esame di coscienza da parte dei produttori di film e videogiochi violenti avrebbe effetti salutari. A patto che coinvolga anche i giornalisti, i pubblicitari, gli autori televisivi e tutti i comunicatori professionisti che animano il mondo dei media.