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Caso Cogne: l’irresponsabilità dei media di fronte ad una dolorosa vicenda umana

La sentenza della Cassazione sul caso Cogne chiude un capitolo doloroso non solo per i protagonisti ma per l'intero Paese e anche per l'informazione in Italia, con le sue luci e le sue ombre.

5 Giugno 2008

29/05/2008

«Il caso Cogne – sostiene Massimo Milone, presidente dell’Ucsi (Unione cattolica stampa italiana). – èstata una seconda rivoluzione, dopo la prima, che, a livello planetario, è stata rappresentata dalla morte e dai funerali di Lady Diana in diretta televisiva come grande evento mediatico. In Italia, con il caso Cogne è stato registrato il “processo dei processi” in diretta televisiva».

Specchio della società
Per Milone, questo modo di fare tv svela, appunto, delle “ombre” : «Il caso Cogne deve far riflettere tutta la comunità del giornalismo radio-televisivo pubblico e privato e la carta stampata, che su questo caso, come su quello di Erika, ha riprodotto sulle sue pagine un’informazione a “rotocalco televisivo”. Infatti, spettacolarizzazione, approssimazione e una dose di cinismo sono emersi prepotentemente in questi anni nella nostra professione». E qui sono in ballo «la responsabilità individuale dei giornalisti e la responsabilità dei direttori di testate rispetto alle linee da adottare ».

La televisione oggi, per il presidente dell’Ucsi, è anche «lo specchio di una società sempre più consumistica, del prodotto usa e getta e dell’antenna satellitare, dove si registra una caduta di valori forti, come la famiglia tradizionale, il rispetto della donna, dei minori, degli anziani, dei soggetti più deboli ». Insomma, «ad una società liquida corrisponde un’informazione leggera, pericolosamente spettacolarizzata, che non fa analisi critica e articolate verifiche, ma dà risposte più che altro pruriginose». Ad avviso di Milone, «la responsabilità maggiore ovviamente è del servizio pubblico, che è strumento sempre finalizzato al bene comune. Come giornalisti, abbiamo il diritto-dovere di dare notizie, dopo attente verifiche, nel pluralismo informativo, ma dobbiamo sentire la responsabilità che dietro ogni notizia c’è una persona, una famiglia, un contesto, la storia di un paese».

Un’informazione spudorata.
Nel caso di Cogne, invece, si è andati nella direzione opposta, con «un’informazione spudorata e oltre i limiti della decenza», e «a perdere è stato il rispetto che è necessario avere per una grande tragedia». Parola di Pasquale Andria, presidente del Tribunale dei minori di Potenza. «Mentre prendiamo atto che c’è stata una sentenza definitiva di condanna, confermata dall’esito dei tre gradi di giudizio – afferma il magistrato – sono rimasto colpito molto negativamente dall’uso sconsiderato che si è fatto dal punto di vista massmediologico di questa vicenda, che è quasi un’icona della società della comunicazione di massa, capace di violare tutti i limiti possibili del dolore e del rispetto delle persone». La protagonista della storia, oggi condannata, «è stata tra gli artefici di questa spettacolarizzazione, in cui sono coinvolte altre persone, anche dei bambini». Come i figli di Annamaria Franzoni «costretti ad una sovraesposizione mediatica, ma dal punto di vista di un recupero dell’etica e della deontologia dell’informazione i media non dovrebbero indulgere a queste forme insopportabili e intollerabili ».

Banalizzazione del dolore.
Per il presidente del tribunale dei minori di Potenza, «un conto è informare, un conto fare della informazione materia di spettacolo. Si è arrivati persino a ricostruire in televisione, con un plastico della villa teatro del delitto, tutti i momenti dell’episodio delittuoso». Non solo la tv è sul banco degli imputati. «Ho molte riserve sul fatto che alcuni esperti si siano prestati a essere comprimari di questa spettacolarizzazione. Talune trasmissioni televisive hanno fatto, sul caso, servizi a puntate, quasi una telenovela, sempre con gli stessi protagonisti. Anche qui si pone un problema di deontologia, come nel caso di chi svolge determinate funzioni o professioni e si pronuncia in modo così tranciante su fatti di cui non si ha cognizione diretta o un ruolo preciso. Questo per rispetto della propria professionalità e di coloro che invece esercitano quel ruolo in quel processo».

Il caso di Cogne, insomma, per il magistrato, è «un episodio che grida vendetta per come è stato gestito dai mass media e da chi si è prestato all’operazione di spettacolarizzazione dei mass media». Che poi significa «anche banalizzazione della percezione del dolore da parte del pubblico: il dolore che diventa spettacolo perde la sua consistenza reale e non è più capace di suscitare emozioni vere, ma soltanto curiosità e morbosità ».