Nel corso di questi ultimi anni, in occasione di interviste su quotidiani, settimanali e riviste il cardinale Angelo Scola ha avuto modo di raccontarsi. Ecco alcuni stralci che riguardano la sua vita a Malgrate, dove parla di sè, della famiglia, degli anni del liceo e dei suoi primi maestri.
Vengo da una famiglia poverissima
«Non scrivete che sono di Lecco, perché io sono di Malgrate… Orgoglioso di venire da una famiglia poverissima: i miei hanno sempre vissuto in un appartamentino nella vecchia corte di una grande fattoria di non più di 35 metri quadrati dove c’era un piccolo ambiente con una stufa economica che fungeva da cucina, da salotto e da tutto. Poi si entrava nella camera da letto dei miei e da lì si passava in un bugigattolo dove dormivamo io e mio fratello… Ho avuto la fortuna di vedere la verità e la bellezza dell’amore nello sguardo del mio papà verso la mia mamma dopo 55 anni di matrimonio. C’era una tale riuscita d’umanità in quello sguardo…».
Mia madre, donna religiosissima
«Ognuno di noi ha assimilato la fede con tale naturalezza per cui per noi credere è come respirare. Non occorrono tanti ragionamenti. La fede è qualcosa di radicato nel profondo del nostro cuore perché i nostri genitori ce l’hanno trasmessa passandoci il latte, la tenerezza e la delicatezza della loro edificazione familiare e sociale… Mia madre era donna religiosissima. Fin da bambino mi ha insegnato a rivolgere l’ultimo pensiero prima di addormentarsi alla Madonna. Teneva fra le braccia Gesù in fasce e lo prese fra le braccia cadavere ai piedi della croce. C’è qualcosa di più tenero a cui consegnarsi prima di questa strana parentesi del sonno?».
Da bambino volevo fare il missionario
«In quarta elementare – credo che fosse il 1950 – un mattino venne a scuola un religioso e ci propose di seguirlo, per studiare e poi andare in Africa con lui. Tornai a casa e dissi a mia madre che volevo partire. Lei andò dal parroco. Ma lui le disse che se avessi voluto andare in seminario, sarebbe stato meglio quello della diocesi. Non se ne fece nulla».
Ho studiato grazie a mio padre
«Mio padre mi ha dato il senso del viaggio e il gusto del lavoro. Guidava un Fiat 626 che faceva al massimo 37 chilometri orari. Allora non c’era il servosterzo, doveva girare le ruote a forza di braccia e gli erano venuti due muscoli così!… Fu un nenniano di ferro, almeno fino a quando Pietro Nenni non varò il centrosinistra con la Dc: ci restò malissimo. La passione per il popolo l’ho presa da lui. Gli devo molto. Compreso il fatto che, essendo un socialista massimalista, mi ha fatto studiare perché L’Unità e 1’Avanti! raccomandavano di mandare i figli a scuola… Si ammazzò di lavoro, per farci studiare… Probabilmente a 11 anni sarei finito anch’io, come tutti i miei compagni delle elementari, a lavorare, se mio padre non mi avesse insegnato che studiare era molto, molto importante. Permettendomi così di iscrivermi al liceo classico…».
Quei libri che hanno formato la mia vita
«Don Fausto Tuissi era stato mandato a Malgrate come cappellano ed era un eccezionale uomo di lettere, compagno di scuola di don Giussani in seminario… Io ero l’unico del mio paese a frequentare le medie e poi il ginnasio. La sua casa era sempre aperta. Mi chiamava e mi leggeva delle pagine. Non mi ha mai dato in mano un libro, mi diceva che non si poteva: erano gli anni tra il ’55 e il ’59. Mi ricordo la lettura di Delitto e castigo di Dostoevskij; in particolare il racconto della conversione di Rashkolnikov che si riconosce innamorato di Sonia. Tuissi mi diceva: “Questa cosa la puoi capire” e me la leggeva. E così per La peste di Camus. Mi ricordo quel passaggio nel quale Rieux si interroga circa il modo con cui il popolo di Orano, di fronte a quella calamità, potesse prospettarsi il senso della vita. Ancora mi viene in mente la lettura delle pagine del Caligola, sempre di Camus, sull’esperienza della morte. Affrontavamo i temi connessi al senso della vita e della morte, del bene e del male… Mi ricordo anche l’omelia del prete in L’urlo e il furore di Faulkner, in cui si tocca il tema della presenza di Dio e del suo rapporto con una persona handicappata mentalmente. Erano quasi sempre testi che mi aiutavano a porre le questioni radicali della vita: da dove veniamo, chi siamo, verso dove andiamo.
Mi affascinava il messaggio di don Milani
Mi è servito molto infatti più avanti, al liceo; dopo la scuola, andavo spesso con gli amici in biblioteca a leggere… Tra i grandi nomi di quel tempo: Mazzolari, Balducci, Turoldo, quello di Lorenzo Milani è il messaggio che condivido di più. Mi ha sempre colpito il tema della scuola legata alla vita del soggetto sollevato da Milani che, attraverso la stupenda formula educativa I care, ha risvolti ancora molto attuali. Io ho sentito molto il privilegio (in quegli anni era davvero tale!) di poter frequentare il liceo classico e di poter leggere di tutto, a 360 gradi».
Al liceo, come se Dio non ci fosse
«Tra i 14 e i 18 anni, durante gli anni del liceo, ero preso dall’interesse per la politica e per i problemi sociali, in una maniera tale che l’appartenenza alla Chiesa è come caduta in secondo piano. Ero talmente preso dai problemi sociali, politici (avevo una simpatia per i partiti marxisti perché il mio papà era impegnato nel Partito socialista) che questi prendevano il sopravvento su tutto il resto. Allora era come se Dio non ci fosse, come se la Chiesa non ci fosse, come se Dio non contasse più, come se avessi seppellito le domande più importanti della vita… Non ricordo di aver mai saltato la Messa, però era come se questa cosa non contasse più niente; in questo senso mi sono dimenticato anche della Chiesa: per certi aspetti è più grave che abbandonarla. Mentre prima le domande più importanti della vita mi rodevano dentro, adesso le avevo messe a tacere. Era come se tutte queste cose non contassero più. Poi, grazie a Dio, alla fine del liceo ho trovato degli amici che invece vivevano in maniera più intensa tutto».
Don Giussani, la svolta della mia vita
«La prima volta che vidi don Giussani fu nel 1958, quando a Lecco durante la Settimana Santa la Gioventù studentesca invitò i giovani liceali ad alcuni incontri di preparazione alla Pasqua. Mi ricordo che ci andai su grande insistenza di un mio compagno di scuola che vinse le mie resistenze. Non amavo molto Gioventù studentesca, perché mi sembrava un luogo adatto ai miei compagni quasi tutti di estrazione borghese, piuttosto che a me… Don Giussani tenne una splendida lezione sulla gioventù come tensione e per la prima volta percepii un accento diverso nel considerare il rapporto tra Cristo e la mia vita. Io, infatti, avevo perso questo nesso: la mia fede era stanca, la mia pratica passiva. I miei interessi si erano spostati sulla politica e sulla letteratura russa e americana. Ma quel giorno, quando sentii don Giussani parlare così, ebbi un fremito, e cominciai a guardare a Cristo in maniera diversa».