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BILANCIO

Un viaggio spirituale che converte

Si è concluso nella cittadina di Abu Gosh, tra Gerusalemme e Tel Aviv, il pellegrinaggio diocesano in Terra Santa, guidato nei primi giorni dal cardinale Scola. I 350 pellegrini ambrosiani, dopo la visita in gruppi distinti ad Israele o alla Giordania, si sono ritrovati nella chiesa di «Nostra Signora dell’Arca dell’Alleanza», per celebrare la Messa conclusiva

di Massimo PAVANELLO

5 Gennaio 2015

Abu Gosh, una cittadina tra Gerusalemme e Tel Aviv. Qui, nella chiesa di «Nostra Signora dell’Arca dell’Alleanza», i pellegrini ambrosiani – dopo la visita in gruppi distinti ad Israele o alla Giordania – si sono ricompattati per celebrare la santa Messa conclusiva del viaggio diocesano.

L’inizio del pellegrinaggio era stato contrassegnato dalle liturgie presiedute dal cardinale Angelo Scola a Betlemme e a Gerusalemme. La conclusione è stata affidata invece a mons. Pierantonio Tremolada che – insieme all’altro vicario episcopale, mons. Piero Cresseri – ha rappresentato l’Arcivescovo durante l’ultimo scampolo di giorni.

La meditazione – come sempre nei Luoghi Santi – ha alternato storia e spiritualità, terra e desiderio. Il sito di Abu Gosh, infatti, non è stato scelto a caso per la celebrazione finale. Questo villaggio risale ad oltre 6 mila anni fa, ed è conosciuto nella Bibbia col nome di Kiryat Ye’arim. Qui venne collocata l’Arca dell’Alleanza. Durante il periodo delle Crociate, poi, l’agglomerato fu identificato con Emmaus, il luogo in cui Gesù si è rivelato dopo la resurrezione. Nei primi anni del 1900, inoltre, fu eretta pure la chiesa dedicata a Maria che, per i cristiani, è la sempre contemporanea Arca dell’Alleanza.

E proprio questi temi il vescovo ha toccato nella sua omelia: l’Alleanza con Dio, l’iniziativa di Gesù che ricerca i discepoli, la gioia che ricompare sul loro volto dopo il momento della tristezza, Maria come modello di vita cristiana.

Mons. Tremolada, in particolare, ha insistito sul volto triste dei discepoli trasfigurato dall’incontro con Gesù. Tutto il programma del pellegrinaggio, del resto, mirava proprio ad offrire questa esperienza di conversione, di ritorno alla coerenza cristiana che ha nel lieto annuncio il suo fondamento. Gli strumenti sono stati sia la visita ai luoghi – dal fiume Giordano ad Ain Karem, dal Monte delle Beatitudini a Cafarnao; da Macheronte al Monastero della Quarantena – sia l’incontro con le pietre vive di questi siti, come la farmacista di Nazaret che ha raccontato di sé o come mons. Maroun, Vicario di Giordania, che ha toccato temi di attualità, tra tutti la questione dei profughi di guerra scappati dalle nazioni circostanti e ospitati anche nelle chiese del Paese. Un fenomeno con numeri sbalorditivi: la Giordania conta 6 milioni di abitanti e ospita al momento 3 milioni di profughi.

Il pellegrinaggio tuttavia non è stato solo circoscritto ai momenti ufficiali. E in ugual modo sono state importanti anche le relazioni brevi. Gli iscritti al viaggio erano prevalentemente persone tra loro molto eterogenee è hanno potuto così sperimentare la bellezza e la fatica del vivere insieme, il gusto di scambiarsi confidenze, il servizio vicendevole reso attraverso le molte domande rivolte agli accompagnatori spirituali. Accompagnatori cui corre l’obbligo di un ringraziamento pubblico per la competenza dimostrata sia nella proposta dei contenuti sia nella gestione dei rapporti personali.

Ora si apre il momento che pertiene ai singoli pellegrini e alle comunità parrocchiali d’origine. Il pellegrinaggio infatti è anche un’esperienza “missionaria”. Chi lo compie non può non narrarlo. E il racconto dovrebbe vertere prevalentemente non su quanto ciascuno ha vissuto, bensì sul fatto che il viaggio è possibile. Un viaggio spirituale da farsi, che converte.