Nel programma di Papa Francesco c’è tutta la consapevolezza dell’intrecciarsi delle sorti delle due aree del mondo, quella dello sviluppo e quella del sottosviluppo
Si è ormai conclusa, con le storiche immagini di Castelgandolfo e le consegne affidate ai giovani la Domenica delle Palme, la fase di avvio del pontificato di Francesco. È ormai familiare il suo stile antico e nuovissimo di maestro di vita cristiana, i gesti, le parole, i segni di novità evangelica che hanno saputo parlare immediatamente al mondo.
E anche su questa dimensione, della Chiesa nel mondo, nei suoi rapporti con questo mondo variegato eppure sempre più integrato, ha dato indicazioni sintetiche, precise, impegnative e chiare.
Ricevendo il Corpo diplomatico ha concluso con un appello, che è un programma, offerto a tutti, con semplicità e con libertà: «Lottare contro la povertà sia materiale, sia spirituale; edificare la pace e costruire ponti». Li ha presentati «come i punti di riferimento di un cammino al quale desidero invitare a prendere parte ciascuno dei Paesi che rappresentate».
La proposta di lottare contro tutte le povertà, di edificare la pace e di costruire ponti evoca diverse, strutturali questioni di relazioni internazionali. La prima è quella dei destini delle due aree, sempre più interdipendenti, dello sviluppo e del sottosviluppo, destinate ad intrecciarsi in termini sempre più articolati. Accanto alla povertà materiale infatti ha evocato i problemi della povertà del tessuto etico e dunque civile che il relativismo e la sua “dittatura” generano, nei più diversi contesti.
Se è chiaro l’impegno ad edificare la pace – laddove le guerre divampano, così come pure le persecuzioni – strategico è anche l’impegno comune per costruire ponti. Francesco evoca esplicitamente il mondo islamico, ma necessariamente si deve pensare anche alla Cina.
Anche in questo senso il primo discorso al Corpo diplomatico deve perciò essere letto insieme all’altro ai rappresentanti delle Chiese e delle religioni.
Fondamentale l’incontro con Bartolomeo, «fratello Andrea», la definizione dell’ecumenismo come un «servizio di speranza» e le concrete parole di dialogo rivolte ad ebrei e musulmani, alle altre religioni, senza dimenticare coloro che non credono e sono in ricerca, «che sono nostri preziosi alleati nell’impegno a difesa della dignità dell’uomo, nella costruzione di una convivenza pacifica fra i popoli e nel custodire con cura il creato».
Ecco il punto essenziale: «Dobbiamo tenere viva nel mondo la sete dell’assoluto, non permettendo che prevalga una visione della persona umana ad una sola dimensione, secondo cui l’uomo si riduce a ciò che produce e a ciò che consuma: è questa una delle insidie più pericolose per il nostro tempo».
Come ha scritto una rivista americana: «The new Pontiff is a uniter, not a divider», nella Chiesa, tra le Chiese e nel mondo. E l’unità non può che essere fondata sull’essenziale: «Non si possono, infatti, costruire ponti tra gli uomini, dimenticando Dio. Ma vale anche il contrario: non si possono vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri».