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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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La prima tappa

«Sopportiamo la sofferenza
perché Cristo ha patito per noi»

«Piantiamo il Chiodo dentro questo luogo di dolore, perché Lui ha piantato la parola speranza dentro la nostra carne»: alla Mangiagalli, alla presenza dell’Arcivescovo, l'incontro col mondo della malattia che mette alla prova la famiglia

di Stefania CECCHETTI

8 Maggio 2014

«Carissimi tutti, il nostro cuore è in questo momento soprattutto con gli ammalati e i familiari, con tutti gli operatori sanitari di questo grande centro di ricerca di cura, cultura, di solidarietà e amore». Così il cardinale Angelo Scola ha salutato i presenti oggi pomeriggio nell’aula magna della Clinica Mangiagalli, prima delle quattro tappe del pellegrinaggio della Croce di San Carlo con il Santo Chiodo in alcuni luoghi significativi della città.

Dopo la lettura di un brano dalla prima lettera di Pietro e di uno scritto di San Carlo – il primo Arcivescovo a portare la Croce per le vie della città -, il cardinale Scola ha spiegato così il senso della sosta in uno dei più importanti ospedali di Milano: «Abbiamo voluto portare qui la Croce perché il Sacro Chiodo ha una forza imponente, fisica. Tocca il corpo e, attraversandolo, giunge al cuore, che sinteticamente tiene dentro tutta la complessità di cui abbiamo il peso: la mente, il cervello, lo spirito. In un certo senso, piantiamo il Chiodo e la Croce dentro questo luogo di dolore, di sofferenza e di prova perché, come ha detto la Parola di Dio che abbiamo letto, possiamo sopportare la sofferenza perché anche Cristo ha patito per noi e per la gloria, ha piantato la parola “speranza” dentro la carne mortale e sofferente. Mortale per il male fisico, ma anche per il male morale, per la perdita del senso del bene del bello e del vero che spesso ci caratterizza».

La speranza, mai disgiunta dalla sofferenza, è occasione di rinascita per ciascuno di noi, ha detto ancora il cardinale Scola, citando le parole di San Carlo proclamate all’inizio del suo intervento: «“Non perdetevi d’animo”, dice San Carlo con un realismo potente e un’immagine efficace. Anche quando Cristo sembra tacere, grida il suo chiodo preziosissimo e ci dice: “Io sono stato quella penna che con il sangue vi ho disegnato sulle mani del mio Signore. Nessuno dica che il Signore si e dimenticato di noi”. E San Carlo diceva tutto questo in piena peste. Noi siamo profondamente incisi nelle sue piaghe, nel suo petto, nel suo costato. Il Chiodo ha disegnato in Lui i nostri nomi con caratteri indelebili».

L’Arcivescovo ha poi concluso: «Tutti noi fin dalla nascita siamo dentro questo disegno del Padre, il dolore e la prova sono la grande condizione di passaggio per la gioia. Vogliamo dire, attraverso questo luogo, a tutti i sofferenti nel corpo e nella mente delle nostre terre ambrosiane, questa intima vicinanza del Crocifisso».

Di sofferenza e di speranza hanno parlato anche i quattro relatori invitati a parlare all’incontro dal titolo “La malattia e la famiglia, narrazioni di croci e speranze”.

Il professor Nereo Bresolin, primario di neurologia presso il Policlinico e direttore scientifico della “Nostra Famiglia” di Bosisio Parini, ha raccontato quanto possa esser tragica la malattia neurodegenerativa: «Studiare la neurologia significa conoscere l’incanto del cervello e l’enigma della mente, per alcuni il mistero stesso della vita, ma anche capire quanto possa essere terribile la malattia». Illustrando le principali forme di patologie degenerativa, dall’Alzheimer, alla Sla, fino alla distrofia di Duchenne, Bresolin ha poi elencato una serie di associazioni di pazienti e familiari nate dal desiderio di non arrendersi al dolore, di dare spazio alla speranza. Resilienza, l’ha chiamata, con un termine che usano gli ingegneri per parlare della proprietà di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi: «Usiamo questa parola con le famiglie che aiutiamo ad accettare attivamente la malattia, a incontrarsi con altre famiglie per scambiarsi informazioni. È un modo per restituire loro energia».

Anche la dottoressa Matilde Leonardi, dirigente medico all’Istituto Besta di Milano e membro della Pontificia Accademia Pro Vita, ha insistito molto sul ruolo della famiglia nella malattia: «Mi occupo in particolare dei pazienti in stato vegetativo, in genere in seguito a un trauma cerebrale. Il paziente vegetativo è una pietra dello scandalo, è il paradigma di come si possa essere dipendenti in tutto dall’ambiente, in particolare dalla propria famiglia. Una delle più grandi sfide per noi medici è sapersi prendere cura di questi pazienti senza abbandonare quelli che se ne prendono cura». E sul valore della dipendenza ha proseguito: «La dipendenza dall’altro nella nostra società è considerata una diminuzione. Ma vivendo a contatto con i pazienti vegetativi ti accorgi che tutti dipendiamo da qualcuno, ti abitui a considerare la dipendenza come un valore». Leonardi ha poi insistito sull’importanza di investire in ricerca per questi pazienti, che in alcuni casi si sono rivelati essere soggetti coscienti senza poterlo manifestare, anche grazie ai suggerimenti dei familiari che li assistevano continuamente: «Noi scienziati non ci arrendiamo alle sfide che ci pongono questi stati vegetativi. Investire nella ricerca è investire sull’uomo».

È intervenuta poi Serena Libertà, pseudonimo di una donna che ha raccontato in un libro la sua personale storia di anoressia, superata grazie all’esperienza in un gruppo di preghiera: «Non voglio raccontarvi della mia vertiginosa perdita di peso che, a 16 anni, mi ha portato da 55 chili a 29. E nemmeno dei disturbi psicologici che mi hanno accompagnato in quegli anni. Vorrei solo dire quanto la fede e l’incontro con una comunità che mi ha accolto mi abbiano aiutato a uscirne». «L’anoressia – ha proseguito – non è solo un problema medico e psicologico, ma anche spirituale. È un vuoto dell’anima che ha bisogno di ascolto attento e vicinanza emotiva. È il bisogno di essere accolti per quello che si è e non giudicati. E tutto questo con la fede è possibile».

Infine Alessandro Colombo, direttore di casa Mizar, una realtà legata a Caritas Ambrosiana nata nel 1999 per dare casa e famiglia agli ospiti dell’ex Paolo Pini di Milano, ha iniziato il suo intervento con una suggestiva spiegazione del nome “Mizar”, la stella centrale del timone della costellazione dell’Orsa Maggiore che oscura la più piccola Alcor, difficile da vedere proprio a causa della brillantezza di Mizar. «È questo il senso della nostra realtà – ha detto Colombo -. Persone come i malati psichiatrici, che per tanti anni sono rimaste nascoste, adesso illuminano noi, “corpi morti” che nella quotidianità perdiamo il senso, la voglia la forza di lottare. Abbiamo bisogno di essere illuminati, noi operatori e noi tutti, di ritrovare il senso grazie da queste persone».

I quattro interventi sono stati intervallati dalla proiezione di video realizzati dall’Associazione “I Semprevivi”, legata alla parrocchia di san Pietro in Sala a Milano e guidata da don Domenico Storri. L’Associazione lavora sviluppando percorsi riabilitatitivi per sostenere malati psichiatrici e le loro famiglie.