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Milano

Scola: «La costruzione della pace
obbliga i cristiani alla testimonianza»

Il Cardinale Scola ha presieduto in Duomo la Celebrazione del 1 gennaio, cui hanno partecipato i Responsabili delle Chiese e delle comunità cristiane presenti a Milano, indicando la necessità di riconoscersi fratelli per sfuggire alla logica schiavo/padrone

di Annamaria BRACCINI

1 Gennaio 2015

Tutti fratelli nell’unica famiglia umana, in quanto figli dello stesso Padre.

Nel primo giorno dell’anno, che ricorda la circoncisione di Gesù, e in cui si celebra la Giornata Mondiale per la Pace – quest’anno la 48esima –, il cardinale Scola in un Duomo gelido, ma reso “caldo” dalla bellezza del rito e, soprattutto, dalla fede di migliaia di fedeli presiede la l’Eucaristia, cui partecipano, come tradizione, i Responsabili delle Chiese e delle comunità cristiane presenti a Milano.

E il pensiero è subito per una fratellanza autentica, la sola capace di promuovere una pace autentica e duratura. In Cattedrale ci sono anche gli aderenti alla Comunità di Sant’Egidio che, con altre aggregazioni e movimenti ecclesiali, ha promosso, come ogni anno, la Marcia per la Pace conclusasi in Duomo e definita dal Cardinale un «gesto pubblico assai decisivo». Segno di una conversione dei cuori e della mente cui ci obbliga la nascita del Dio Bambino che è, sottolinea l’Arcivescovo, «condizione indispensabile per l’umana crescita». Quella che nasce dallo «stare davanti all’evento del Natale» con stupore, perché, come nota il Papa proprio nel Messaggio per la Giornata 2015, intitolato “Non più schiavi ma fratelli”: «Non si diventa cristiani senza l’esercizio della libertà personale, cioè senza convertirsi liberamente a Cristo».

Per questo si può e di deve guardare al domani con speranza perché il futuro «non è in balìa di forze oscure da ingraziarsi con riti propiziatori in vista di un generico bisogno di salvezza o da neutralizzare con superficiali stili di vita, ma è custodito da un Padre che ci abbraccia e ci precede in qualunque circostanza e rapporto, favorevole o sfavorevole».

Creati a immagine «del mistero della generazione divina», siamo, dunque chiamati a custodire «lo splendore della filiazione umana», sostenendo l’insostituibile importanza delle «questioni relative alla dignità della persona all’inizio e alla fine della sua vita, così come quelle attinenti alla famiglia, al matrimonio e alla sessualità, che non possono essere taciute o tralasciate solo perché non si vuole mettere a repentaglio il consenso. Sarebbe un peccato se, su tali importanti questioni legate all’esistenza umana, si verificassero anche nuove differenze confessionali», dice l’Arcivescovo citando ancora papa Francesco.

Da una parte, quindi, la difesa della inviolabile dignità della persona, dal concepimento al termine naturale della vita, dall’altra la consapevolezza che, in quanto figli, non possiamo che essere fratelli. «L’umanità non è un insieme di figli unici – scandisce Scola –. Nella convivenza sociale di questo dolorosissimo tempo, la grande alternativa di fronte alla quale ogni giorno uomini e popoli sono chiamati a giocarsi, è chiara: trattarsi da estranei e nemici gli uni degli altri – ciò che inevitabilmente porterà al conflitto padrone/schiavo e alla guerra – o riconoscersi fratelli perché figli di uno stesso Padre». Alternativa drammatica, ma estremamente reale come ben si vede nella martoriata Terra Santa, visitata in questi giorni, dove «ho potuto percepire la gravità estrema della situazione dovuta al venir meno della fratellanza tra i popoli che lì vivono», spiega il Cardinale, aggiungendo: «Il Patriarca latino ha parlato, a proposito della sua Chiesa, di Chiesa del Calvario e il Custode di Terra Santa ha mostrato come lo stesso conflitto israeliano-palestinese rischi di involvere ulteriormente perché lo scontro ha ormai coinvolto tutto il Vicino e Medio Oriente».

E, tuttavia, di fronte a tanti morti, alla sofferenza – un milione e 400mila profughi per la guerra in Siria –, all’impossibilità di intravedere soluzioni, alla paura e alla stanchezza, è solo la fede a tenere viva la speranza.

Evidente, in questo contesto, la responsabilità per tutti noi: «Toccare con mano le gravi prove di uomini e popoli in queste atroci condizioni non può non interrogare in profondità noi europei. Sarebbero molti i compiti da assumere a partire da quello di un impegno personale di preghiera e di aiuto, ma imprescindibile resta quello della costruzione della pace come impegno di tutti, in particolare di governi, popoli e nazioni». Sulla base dei quattro “pilastri” già indicati da san Giovanni XXIII nella Pacem in terris – verità, giustizia, amore e libertà –, «è ora necessario che uomini, popoli e Istituzioni si mettano all’opera per la costruzione di un nuovo ordine mondiale con il coraggio di rinnovare in profondità gli organismi internazionali già esistenti o di crearne, se necessario, di nuovi. Ci vogliono attori permanenti di pace, di giustizia e, soprattutto in società come le nostre, di educazione alla vita buona che svuoti dall’interno il delirio della violenza terroristica e faccia della cultura di pace il terreno su cui possa fiorire l’autentico sviluppo di tutti i popoli».

Da qui l’auspicio e l’augurio, nell’affidamento «grato e sereno al Signore», venuto nella storia e già, nel tempo di Natale, avviato verso la Pasqua, «cominciamo il nuovo anno consolati dalla certezza che Dio non si arrende mai. Siamo figli e quindi fratelli e questo riguarda tutta la famiglia umana. Di tale immenso dono di grazia siamo chiamati a rendere comune testimonianza al mondo».

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