Cambiare il cuore, nell’incontro vero con il Signore, per essere testimoni autentici della bontà e bellezza di una vita vissuta secondo il pensiero di Cristo.
È questo l’impegno che il cardinale Scola chiede ai molti fedeli che, recitando il Rosario guidati dal vicario di zona, monsignor Franco Agnesi, sono saliti fino al Santuario dedicato a Santa Maria del Monte, culmine del Sacro Monte di Varese.
Sotto un cielo striato dalle brume autunnali, l’Arcivescovo arriva nello splendido tempio mariano, per fare memoria viva del beato Paolo VI, la cui slanciatissima statua bronzea, opera di Floriano Bodini e posta sul sagrato nel 1986, pare vegliare sul Santuario, come volle il segretario di Montini, monsignor Pasquale Macchi, profondamente legato a questi luoghi, di cui fu anche Arciprete.
Ci sono i malati accompagnati dai volontari dell’Unitalsi di Varese, le autorità civili, tra cui il presidente del Consiglio Regionale Cattaneo, i giovani e gli anziani; concelebrano l’Arciprete, monsignor Erminio Villa, il prevosto di Varese, monsignor Gilberto Donnini e un buon numero di sacerdoti della zona. Le “Romite ambrosiane” – il Cardinale, al termine della Messa, le visita nel loro Monastero attiguo – assistono al rito da dietro una grata che si affaccia direttamente all’interno sul Santuario, dove trova spazio lo storico “Oratorio delle Beate”, con le urne di Caterina da Pallanza e Giuliana Puiricelli che, a metà del XV secolo, furono iniziatrici del Monastero stesso.
«Siamo lieti di accogliere il Pastore che, nella Successione apostolica siede sulla Cattedra di Ambrogio e Carlo, quella del beato papa Paolo VI che qui era di casa», dice in apertura l’Arciprete, definendo Montini un autentico profeta del nostro tempo. «La nostra venerazione è tanto grande da ritenerlo quasi un martire, per ciò che ha dovuto soffrire per il bene della Chiesa». Un amore – citato dallo stesso Montini nel suo “Pensiero alla morte” – che «abbiamo capito e ricambiamo».
E proprio dalla memoria viva e reale del Beato prende avvio la riflessione dell’Arcivescovo, proposta in quella che definisce «l’intimità spirituale di questo prestigioso Santuario, scrigno di bellezza, luogo di pace, punto di riferimento straordinario per la fede, baluardo contro l’eresia ariana».
«È questa un’occasione privilegiata – spiega – per attuare la nostra continua conversione, per la nostra capacità di offerta della vita nell’amore al Signore Gesù, richiamata dalla santità di questo luogo ancorato a un passato glorioso che risale fino a Sant’Ambrogio».
Un invito a “cambiare” che illumina anche il senso profondo del compiere la salita tra le Cappelle lungo la Via Sacra, recitando il Rosario. Gesto che si ripete, ogni sabato mattina, dagli Anni Ottanta, ma che «potrebbe restare avulso dalla nostra esistenza, se non comprendessimo che siamo qui, appunto, per cambiare».
Di fronte ai tanti battezzati che rischiano di trovarsi in una posizione di non consapevolezza, «dimenticando il vero fondamento dell’esistenza nel ritmo vorticoso della vita, delle vicende affettive e della malattia, dell’educazione dei figli, dell’edificazione della società», occorre ritrovare quello che Paolo VI chiamava “il pensiero di Cristo”. «Un modo di cogliere la realtà quotidiana che, per la potenza dello Spirito, è riproposizione dello sguardo con cui Gesù guardava uomini e cose. Lo stesso sguardo che la Vergine seppe assumere, diventando così paradigma e modello costruttivo per ogni donna e uomo». Maria che ci introduce al Signore Gesù, termine della nostra devozione e realtà viva con cui incontrarsi: il pensiero non può che andare alla “cultura dell’incontro” sottolineata da papa Francesco.
Come, dunque coniugare incontro e cultura? Anzitutto con e nella realtà, perché un incontro è reale se è attraversato dall’amore. Ne è evidente dimostrazione la pagina del Vangelo di Giovanni 21, con la tre volte ripetuta domanda a Pietro, “Mi ami tu?”.
E se il discepolo risponde con uno «sconcerto salvato dal dolore», per usare la bellissima espressione del Cardinale, anche noi oggi, nel terzo millennio, non possiamo non porci il medesimo interrogativo: «Quante volte in famiglia, sul lavoro, con i fratelli e le sorelle cadiamo nello scontato circa l’amore, mentre dobbiamo interpretarlo e viverlo attraverso il pensiero di Cristo», suggerisce l’Arcivescovo. Solo così, questo amore passerà nella vita quotidiana, dove i cristiani e, soprattutto le famiglie, diventano soggetto di una vita bella e buona, per questo da comunicare a una società, come l’attuale, che ne ha grande bisogno».
D’altra parte, lo stesso Paolo VI, fin dagli Anni Trenta del secolo scorso, aveva compreso la necessità di una testimonianza ecclesiale che non si qualifichi solo come “buon esempio”, ma che – potremmo dire oggi – sia autentica cultura dell’incontro. Con tale obiettivo l’arcivescovo Montini, nel 1957, indisse la celeberrima Missione di Milano, fino a giungere alla famosa formula «circa la frattura tra fede e vita che è la malattia endemica del nostro tempo e anche, talvolta, delle nostre Comunità cristiane». Tante sono le iniziative, ma il rischio è «che il senso non sia secondo lo Spirito e il pensiero di Cristo», nota Scola. Al contrario, «siamo al mondo per questo e ciò non è alternativo alla nostra quotidianità, ma ne è la radice, perché possiamo comunicare Cristo solo nell’incontro quotidiano. Essere dispensatori di salvezza significa venire incontro a ogni fratello uomo così che la nostra vista possa essere condotta nella pace».
Insomma, è necessario «mantenere la fedeltà ai tanti gesti che la nostra ricca tradizione ci ha affidato», ma con una mentalità nuova, mentre spesso «agiamo con quella dominante, del politicamente e religiosamente corretto».
Grave e attualissimo il monito finale dell’Arcivescovo: «stanno venendo i tempi in cui, se vogliamo essere cristiani, non saremmo lasciati tranquilli. Paolo VI nel 1923, scriveva al fratello Lodovico, “cercare l’uomo per cercare Dio” e anche la nostra Diocesi ha voluto riprendere il grande tema della Chiesa in uscita con la proposta pastorale di percorrere la via dell’umano. Questa è la direzione su cui dobbiamo applicarci attraverso la ricchezza della creatività ecclesiale e sociale di una città come Varese, vivace per le sue aggregazioni,oratori, movimenti». Proprio perché, lo diceva san Giovanni Paolo II – che salì al Sacro Monte nel novembre di trent’anni fa – “l’uomo è la via della Chiesa”
E, in conclusione, l’Arcivescovo ancora dice il suo grazie «di cuore per questo bell’invito che mi ha permesso di aprire la giornata nella bellezza e nel conforto. Il modo più semplice è comunicare la verità dei ciò che compiamo, e dunque, un gesto come questo non deve rimanere chiuso nel nostro cuore, ma testimoniamolo. La missione non è una macchina da guerra è la comunicazione della vita. Ricordiamo gli uomini della giustizia e della religione che, in Medio Oriente, vengono perseguitati, preghiamo per tutti i cristiani che hanno perso le loro case e per il viaggio le Santo Padre in Turchia».