La Fondazione Don Gnocchi come esempio «nel cammino così decisivo per una società troppo spesso dimentica della genialità creativa della carità e delle sue tante opere»; «la santità della carità che occorre riscoprire», per un domani migliore e più umano; l’«offerta della sofferenza per essere partecipi dell’azione salvifica del Signore». In una parola – anzi in tre – la speranza, l’amore, la testimonianza.
Tutto questo fu il beato don Carlo Gnocchi, nella sua vita terrena troppo breve, di soli 54 anni non ancora compiuti – era nato il 25 ottobre nel 1902 e morì il 28 febbraio del 1956 –, ma tutto questo è oggi la sua “baracca” che continua attraverso decenni.
Sono esattamente cinque anni che don Carlo è beato e, nel giorno della sua memoria liturgica, come il 25 ottobre del 2009, in piazza del Duomo, splende un sole caldo, che ricorda l’abbraccio affettuoso dell’Apostolo del dolore innocente, del “soldato della bontà”, come lo definì il neo beato Montini, che ne celebrò le esequie, sempre qui, in Duomo. In quel triste giorno di febbraio grigio e piovoso c’erano allora – raccontano le cronache – oltre centomila persone: i suoi mutilatini, gli Alpini, chi già allora lavorava nella “Pro Juventute”, oggi divenuta, appunto, la Fondazione don Carlo Gnocchi.
E, allora, è con un’emozione particolare che sia il cardinale Scola, che presiede la Celebrazione eucaristica, sia il presidente della Fondazione, monsignor Angelo Bazzari, nel suo indirizzo di saluto iniziale, ricordano don Carlo in un anniversario che, dice quest’ultimo, «riassume radici e frutti, a inchiodare nei nostri cuori e nelle nostre coscienze il ricordo di un degno figlio di questa terra lombarda che aveva la vocazione di essere cittadino del mondo, profeta e antesignano, geniale imprenditore della carità».
Una storia, quella del beato don Gnocchi che si intreccia con gli Arcivescovi di Milano: da Ferrari «sotto il cui Episcopato don Carlo si era formato e aveva imparato a vestire di concretezza la sua spiritualità», a Tosi che lo aveva ordinato sacerdote, a Schuster, “mio Arcivescovo e mio Padre”, come lo stesso Gnocchi scriveva, in guerra, dalla Russia, a Montini che ai funerali disse:, proprio rivolgendosi agli Alpini presenti, “Eroi eravate tutti, ma lui per giunta un santo”, a Colombo e a Martini che iniziò la sua Causa di Beatificazione, fino a Tettamanzi, l’Arcivescovo della Beatificazione e a Scola che ne fa memoria grata «mia personale e a nome dell’intera Diocesi»
In una Cattedrale gremita, ci sono, in prima fila, gli ospiti dei ventinove Centri italiani della Fondazione, che, tuttavia, si è espansa anche all’estero, i volontari, il personale, gli Alpini con i labari inondati di Medaglie al Valore, e tanta gente. Non mancano i familiari dell’uomo che ha ricevuto il miracolo riconosciuto per la Beatificazione, i sindaci di paesi legati alla figura di Gnocchi, i rappresentanti del Comune di Milano, Granelli, e della Provincia, Maerna. Oltre quindici i concelebranti, tra cui don Maurizio Rivolta rettore del Santuario intitolato al Beato.
Di una «grande opera», parla l’Arcivescovo che chiama don Carlo, «un provocatore che seppe trasformare una vita segnata dal dolore fin dall’infanzia – con la morte del papà e dei due fratelli – in un’esistenza donata attraverso la scelta dell’arruolamento volontario negli Alpini» della “Julia” per non lasciare soli i prediletti allievi del Collegio Gonzaga di cui era Assistente Ecclesiastico.
«Dall’esperienza del dolore vissuta da tanti dei nostri nonni morti inutilmente in quella strage – continua il Cardinale – -, scaturì, per la sua genialità, la condivisione del dolore innocente. Ma soprattutto nacque in don Carlo il senso di una carità capace di creare un criterio di azione e di dedizione che ancora oggi la Fondazione porta avanti con metodi e mezzi all’avanguardia».
Forse per questo tutti ci sentiamo provocati nel profondo dalla sua figura, osserva Scola: ma come aprirsi, allora, alla prospettiva di poter diventare un poco come lui?
Tre grandi le vie che l’Arcivescovo richiama, sulla scia della Liturgia e della Parola di Dio appena proclamata.
Anzitutto, «la speranza in cui noi siamo stati salvati, anche di fronte a un dolore innocente, come quello dei bambini, che sembra solo un’ingiustizia inaccettabile, e che porta spesso a chiamare lo stesso Dio in giudizio».
Poi, l’ amore, «non la caricatura cui ora siamo abituati, che nulla a che fare con il dono di sé, e che ha la pretesa di piegare l’altro al proprio narcisismo e piacere». L’amore vero, «che spalanca alla prospettiva della vita compiuta e definitiva». E, infine, «l’assunzione, che fu tipica di don Carlo anche per se stesso, del metro del giudizio per cui tutti saremo giudicati, il farsi prossimo, il chinarsi sulle ferite degli altri».
Insomma, la modalità con cui seguiamo l’offerta totale che Cristo fa di se stesso.
È qui, in questo orizzonte tutto umano capace di rivolgere lo sguardo a Dio, che «si crea la grandiosa storia di piena santità che tante donne e uomini ci hanno lasciato».
La santità della carità, dove quest’ultima «è strumento di valutazione della realtà e criterio della vita», così come suggerisce bene la liturgia della memoria del Beato, che già aveva, ai suoi tempi, intuito, la necessità di un “nucleo fermo e centrale” nell’educazione dei giovani, contro un emergente frammentazione dell’io
Un «rimanere in Cristo», che l’Arcivescovo, dopo aver distribuito di persona l’Eucaristia a ogni malato in carrozzina, sottolinea ancora, a conclusione della Messa, esprimendo ammirazione e amicizia grande per la “baracca” di don Gnocchi.
«La speranza e la certezza dell’amore di Cristo devono aiutarci a offrire la prova del dolore a Gesù che la farà rifluire su tante persone che sono oggi sottoposte a prove particolari, come coloro che sono privati della casa e persino della vita. Se donate al Signore alla vostra sofferenza sappiate che voi tutti cooperate alla sua azione salvifica».
Anche così, con l’offerta, l’azione concreta vissuta con una spiritualità “alta” e chiara – quale è quella della Fondazione, fedele all’intuizione originaria del Beato – si costruisce il futuro e, appunto, il cammino decisivo per una società troppo spesso dimentica della genialità creativa della carità e delle sue tante opere».