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Seveso

Scola ai nuovi parroci:
«Noi non testimoniamo noi stessi, ma un Altro»

Il Cardinale ha presieduto la Celebrazione della Parola per l’Immissione nell’Ufficio di parroco e per l’avvio ufficiale di una Comunità pastorale. 57 i presbiteri presenti che hanno, così, preso possesso canonico della nuova parrocchia

di Annamaria BRACCINI

31 Agosto 2016

Entrano insieme, a piccoli gruppi, i 57 presbiteri che vivono con il cardinale Scola e i Vicari episcopali di Zona, la Celebrazione della Parola per l’Immissione nell’Ufficio di parroco e per l’avvio ufficiale di una Comunità pastorale. 
L’entrata dalla Porta Santa del Santuario di Seveso segna, a sua volta, il passaggio simbolico tra due diversi incarichi e quello tra la presa di possesso canonica della nuova parrocchia, o Comunità, e i giorni di preparazione vissuti sempre a Seveso, presso il Centro pastorale ambrosiano, attraverso gli Esercizi spirituali e la successiva proposta di formazione dell’iniziativa Tempo in disparte”.  
40 sono i parroci, 17 i responsabili di CP, tra loro vi sono due i religiosi, uno Agostiniano e uno Salesiano; nascono le Comunità della Beata Vergine del Carmelo in Appiano Gentile e della Madonna del Rosario in Trezzano Rosa: 
«Grazie della disponibilità. Questo è un atto molto importante, perché il Diritto Canonico sancisce e rende pubblica la manifestazione del valore di tale atto che compite davanti al Vescovo», dice appunto il Cardinale.. 
Dalle parole del profeta Geremia che definiscono un “antefatto” – “prima di formarti ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”, si avvia la breve riflessione dell’Arcivescovo.  «Vi è un antefatto che le Letture mettono in evidenza e che il fratello uomo, cui siamo mandati, non riesce forse più a percepire. Noi sottovalutiamo il dato che la vocazione caratterizza tutta la vita, ma questo passaggio dice che la vocazione è più importante della vita, perché essa ha senso solo dentro questa prospettiva e a noi è stato fatto il dono  di approfondire questa grande verità nel sacrosanto vincolo della chiamata ministeriale». 
Un dato che è una «grande verità» da approfondire in modo specifico, raccomanda il Cardinale. «Per questo dobbiamo prendere sul serio tale antefatto. Infatti noi non diciamo parole nostre, non testimoniamo noi stessi, ma un Altro. Ecco perché non dobbiamo avere timore, ma chiedere perdono, delle nostre fragilità e peccati, che non ci devono bloccare di fronte al grande compito della testimonianza. La Grazia vale più della vita». 
Il richiamo è scandito dalle parole di Christian de Chergé, il priore del Monastero di Thibirine, martire con i suoi monaci. A un confratello terrorizzato da ciò che sarebbe potuto accadere, “Io non riesco a dare la vita” confidò, il Priore rispose: “Tu la vita l’hai già data quando sei entrato qui”. «Così è anche per noi, non dobbiamo avere paura delle difficoltà: la vocazione è il senso del vivere, una vita senza vocazione non è, compiutamente parlando, una vita. Capiamo così il senso del gesto: noi siamo presi a servizio, per usare un’espressione balthasariana, il che significa essere servi di Cristo, non secondo le nostre aspirazioni e attitudini, ma essere, appunto, a servizio del popolo santo di Dio, come pastori». 
Chiaro il riferimento a quanto lasciò scritto, sul brano del Vangelo di Giovanni 10, il futuro papa Roncalli, patriarca di Venezia, in alcuni appunti che il successore Scola poté leggere, come ricorda lui stesso. «L’allora Patriarca insisteva che il pastore che non è padre riduce la sua azione pastorale ad un ruolo da svolgere. E il ruolo sganciato dall’antefatto della vocazione e dalla vita intesa come vocazione, è potere che significa controllo. Solo l’immedesimazione nella paternità consente di superare questo rischio, l’attitudine del mercenario. L’appartenenza è la chiave di comprensione dell’esperienza cristiana: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore hanno conosciuto me”. In un’epoca che esalta l’importanza della relazione, proprio per uscire dal rischio del ruolo, occorre dire che non è la relazione per la relazione a fare il contenuto del Ministero, ma l’ottica immersa nella relazione costitutiva tra il Padre e il Figlio che è il riflesso della comunione trinitaria a noi svelata dal dono incondizionato della vita di Gesù».  
Da qui la conclusione: «È molto importante che il Ministero abbia come contenuto la relazione di comunione, nella sua dimensione verticale, prima che orizzontale. Non c’è nessun io che possa vivere separato dal noi. In nome della comunione abitiamo i conflitti, non  rimuoviamoli, non cerchiamo consensi facili. Siamo pastori- padri se generiamo figli che imparano davvero a essere tali per tutta la vita». 
Qualunque siano le circostanze che la vita ci riserverà, i rapporti, siamo in buone mani: sappiamo che possiamo assumente questo compito a favore di tutto il popolo di Dio con leggerezza di passo». 
Poi, dopo la Professione di fede, il Giuramento di fedeltà nell’assumere l’ufficio da esercitare a nome della Chiesa – nel quale i parroci e responsabili di Comunità Pastorali pongono le mani sul Vangelo, invocando l’aiuto del Signore – e la lettura del Decreto di immissione in possesso.