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Terza Domenica d'Avvento

Scola: «Accogliere i pellegrini,
ospitare gli stranieri: una fondamentale
opera di Misericordia»

Il Cardinale in Duomo ha presieduto la Celebrazione Eucaristica, di fronte a migliaia di fedeli, nella terza domenica dell’Avvento ambrosiano, animata da Comunione e Liberazione, Movimento dei Focolari, Rinascita Cristiana. A tutti l’Arcivescovo ha richiamato la necessità di giocarsi in prima persona, rispondendo a Gesù

di Annamaria BRACCINI

29 Novembre 2015

La domanda che «marca con la sua decisività» la vita dei primi discepoli di Gesù e quella nostra di oggi, dopo più di duemila anni – “Costui è veramente l’atteso?” – come si chiede Giovanni Battista dalla prigione, “È Colui che stavamo attendendo?”.

Il cardinale Scola in un Duomo gremito di migliaia e migliaia di fedeli per la Celebrazione della terza Domenica dell’Avvento ambrosiano, con cui si apre anche la Novena dell’Immacolata, prende avvio, nella sua riflessione, da quella espressione del Vangelo di Luca che tanto ancora urge nei cuori delle donne e degli uomini di questo tempo disperato e complicato.

È, infatti, nella domanda ripetuta due volte in due sole righe di Vangelo – e non e un caso – che si ritrova il senso profondo del credere della fede, di una risposta «in prima persona che è il “caso serio” dell’esistenza, della vita di ogni uomo».

«Anche oggi, che si creda o no in Cristo, nessuno può sfuggire alla domanda sul senso della propria esistenza che sempre incombe. Vivessimo anche solo dieci minuti, tale questione sarebbe imminente alla nostra persona». Scandisce l’arcivescovo.

«Al di là di tutte le pretese dell’uomo postmoderno, che si immagina postcristiano, che nella pratica esalta il ritorno degli Dei, nessun occidentale può evitare di imbattersi in Cristo-senso, significato e direzione, per il proprio cammino. Questo vale per la triplice attesa che stiamo vivendo, per la memoria del Natale, la venuta di Cristo nell’Eucaristia che celebriamo e per il venire finale di Gesù a chiudere la storia, qualsiasi siano gli avvenimenti che dobbiamo attraversare».

Attesa che si fa certezza se solo si ascolta, ancora dal Vangelo di Luca, la risposta del Signore – “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: risposta che chiama, appunto, alla verifica personale.

«È il metodo seguito, fin dall’inizio, da Dio, che non prescinde mai dalla libertà dell’uomo, né tantomeno la travolge, ma la chiama sempre in causa e lo fa attraverso la storia presente cioè la realtà».

Un metodo documentato, in modo definito dal Cardinale «impressionante», anche dalla Lettura del profeta Isaia, che rompe con il circolo di elezione di una parentela limitata al sangue e alla carne, scegliendo lo straniero Ciro e chiamandolo per nome. «C’è qui un intrecciarsi continuo delle scelte di Dio e del suo disegno di salvezza con la storia degli uomini perché attendere Colui che viene è imparare a scoprirlo già presente nella trama di circostanze e rapporti che costituiscono la nostra esistenza quotidiana. Il fondamento è già posto. Se con gli occhi della fede, con il cuore aperto di Cristo, con la sua mente, affrontiamo il quotidiano, ci accorgiamo che Lui c’era già da prima, in chi fa l’esperienza della gioia e del dolore, della giustizia e della inequità, in chi vede i frutti della sua azione e in chi li vede svanire; in chi si mette sulla strada di un amore per sempre e in chi lo sostituisce con una serie di piccoli piaceri credendo che, per sommatoria, lo si possa raggiungere».

Dalla figura del Battista nasce un’ulteriore indicazione preziosa.

«Chi si mette alla sequela di Gesù, entrando nel Regno, appartiene al nuovo tempo, al tempo finale della salvezza, che è il nostro tempo, come testimonia il Precursore, tempo di Colui che, per la nostra salvezza, si è lasciato illividire sul palo di croce. Tempo che, superando discorsi religiosamente corretti, è anche il tempo del giudizio», nota Scola, da sperimentare secondo la fondamentale virtù cristiana, indicata sempre dal Battista, della povertà dello spirito. «Non c’è benedizione, né privilegio ricevuto, non c’è gloria, culto, promesse, né alcun altro dono che ci possa salvare, cioè realizzare fino in fondo, farci felici, senza questa povertà di cuore. Ecco il fascino del Cristianesimo,del perché seguiamo Cristo, avendo còlto la bellezza di tale sequela». E fare tutto ciò «in questo frangente così travagliato e doloroso, più che mai chiamati, pur nella fatica, a vivere la speranza e a sostenerla in tutti i nostri fratelli uomini».

Da qui, l’auspicio dell’Arcivescovo: «L’opera di misericordia spirituale che vi invito a vivere questa settimana è consigliare i dubbiosi nella quotidiana esperienza. Anche di fronte alla violenza da cui veniamo aggrediti, siamo tentati di chiuderci e diventare inospitali, come ci ha ricordato papa Francesco, sottolineando che l’ospitalità risplende solo nella libertà dell’accoglienza e si oscura nella prepotenza dell’invasione».

Un richiamo, questo, a vivere anche una grande opera di misericordia corporale, sulla quale il Cardinale insiste, idealmente unito al Papa che, in Centrafrica, proprio negli stessi momenti, apre la Porta Santa a Bagui: «Ospitare i pellegrini ovvero, per usare l’espressione della Bolla d’indizione dell’Anno Santo, accogliere i forestieri».

E, alla fine, rivolgendosi direttamente ai movimenti e articolazioni ecclesiali che hanno animato la liturgia – Comunione e Liberazione, presenti con moltissimi membri, l’Assistente Ecclesiastico diocesano, don Franco Berti, il responsabile regionale, Davide Prosperi; il Movimento dei Focolari e Rinascita cristiana – e ad alcune Comunità e parrocchie come la Comunità pastorale beato Carlo Gnocchi di Inverigo, l’Arcivescovo conclude: «Il nostro cammino verso il Natale continua e cerchi diventare esperienza pratica nelle opere di Misericordia». Quella misericordia per cui, domenica 13 dicembre anche in Cattedrale si aprirà al Porta Santa.

La cecità del cuore,
lo sguardo della salvezza

I miracoli sono lì da vedere. Gli inviati di Giovanni chiedono a Gesù se è proprio lui il Messia, e Gesù non risponde a parole, ma con fatti evidenti, straordinari, incontrovertibili: i malati guariscono, i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i morti risuscitano. E possiamo facilmente immaginarli, i due discepoli del Battista che, con gli occhi ancora spalancati dalla meraviglia, vengono così congedati da Gesù: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto». Sì, quella del «vedere» è una delle azioni fondamentali del brano evangelico di oggi. Lo stesso Giovanni, rinchiuso in carcere, non può «vedere» Gesù, non può osservarlo in azione, non può farne esperienza diretta con i propri occhi, capire, insomma, se è davvero lui «colui che deve venire». Il Battista, in un certo senso, è come cieco. E la sua «cecità» è soprattutto interiore, un dubbio che dal cuore gli vela lo sguardo. Appare allora sorprendente l’immagine dipinta da Eustache Le Sueur, pittore francese attivo nella prima metà del Seicento, allievo di Simon Vouet. Dove il cieco a cui Gesù ridona la vista - quello di Gerico, o un altro dei Vangeli - sembra qui richiamare lo stesso Giovanni, fin dalla corta veste arruffata, nella barba e nella capigliatura incolta, in quella stessa prestanza fisica che ricorda il vigore con cui spesso è rappresentato il Battista... Giovanni finalmente vede, il Messia è proprio quello davanti a lui. Il suo sguardo si illumina, le tenebre del dubbio si dissolvono. Ma ora è Gesù che parla del Precursore alle folle. E ancora una volta usa con forza il verbo «vedere»: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto?». E lo ripete, con insistenza, come a voler scuotere un popolo che guarda, ma che ancora non ha davvero visto.
Luca Frigerio

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