Nella consueta cornice di Villa Sacro Cuore si è svolta a Triuggio (24-25 marzo 2012) la VII sessione del Consiglio Pastorale Diocesano sul tema “Carità e Cultura”. Tre i momenti: uno di sintesi dei lavori svolti dai consiglieri nelle sette Zone pastorali, uno di discernimento con l’aiuto di mons. Pierangelo Sequeri, vicepreside della facoltà teologica dell’Italia settentrionale, il terzo di dibattito consiliare con alcune riflessioni del cardinale Angelo Scola. Come ulteriore contributo al tema sono stati proiettati, nella serata di sabato 24 marzo, tre sequenze cinematografiche tratte da “L’ospite inatteso”, “Il villagio di cartone” e “Alemanya”.
La traccia per i lavori dei consiglieri nelle sette Zone pastorali invitava a non limitare l’esperienza della carità ai gesti, pur preziosi, della prossimità solidale ma di far posto a pieno titolo a quella carità che nutre la persona nella sua interezza, nei suoi bisogni e nella sua ricerca di verità e di senso. Con la sottolineatura che “carità e cultura” si appartengono, anche se i modi di questa relazione possono essere diversi. La traccia ne suggeriva tre: la carità che dispiega nel tempo e nella storia la sua capacità di generare cultura; la carità che spinge ad assumere cordialmente l’umano, cioè la cultura; la carità intesa nella sua ampiezza teologica che può entrare in conflitto con una cultura di oggi.
Dalla sintesi delle riunioni di Zona, letta in aula dal consigliere Giorgio Del Zanna, emerge una certa difficoltà ad affrontare il tema proposto. Difficoltà che tendono, da un lato, a lasciare sullo sfondo il tema della cultura subordinandolo ad altri aspetti che sembrano prevalere nella vita delle comunità e, dall’altra, a identificare la carità con attività di assistenza e di aiuto ai più deboli e con le istituzioni preposte (caritas, centri d’ascolto…).
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Mons. Sequeri, nella sua dotta relazione, si discosta da questi significati ricorrenti nel lessico cristiano di oggi, proponendo tre livelli di carità. Anzitutto la definisce «come virtù teologale, quindi un dono diretto di Dio e non l’effetto di un agire dell’uomo», poi integra tale concetto intrecciandolo con la carità intesa come ministero ecclesiale («Come ragione di qualcosa che la comunità cristiana “fa” per il mondo, e modalità dello “spirito” con cui lo fa») e come stile sociale dell’agire ispirato dalla fede evangelica («La gratuità della risposta al bisogno, l’attenzione relazionale, il primato dell’altruismo, la dedizione per le situazioni di emergenza e deprivazione, il sostegno dei diritti dei più deboli…»).
Sequeri non nasconde però le «difficoltà a produrre – anche culturalmente – l’integrazione di questi tre livelli che tendono «ad annullarsi, invece che a potenziarsi l’uno nell’altro: la virtù teologale nel ministero ecclesiale e quest’ultimo nello stile sociale». Con il risultato che l’anello culturalmente più debole è il primo («I termini consueti – carità, amore – sono così compromessi da richiedere più impegno per spiegare quello che non sono che non per il loro sviluppo»). Per contraccolpo, «il più esposto a dover essere rettificato teologicamente è il terzo», perché la carità cristiana «non venga assorbita nella sfera dell’emergenza dei bisogni, dell’orizzontalismo umanistico, della mera funzionalità allo Welfare».
Inoltre, ha aggiunto Sequeri, «non aiuta certo a ben comprendere cosa sia la carità l’assunzione a-problematica della società umana come “sistema di bisogni”, l’ovvietà psico-terapeutica della promozione umana come “realizzazione di sé”, la concezione post-romantica dell’amore come idealizzazione di un “progetto fusionale”, l’assolutizzazione del dono come “consegna all’altro”, l’interpretazione dell’affezione come accettazione dell’altro “così com’è”». Per Sequeri tali formule, «usate anche nel lessico familiare cristiano come slogan di omologazione per agape, contengono tutte qualche verità, ma sono piene di trappole: la carità genera sì cultura, ma la sua ingenuità culturale la disfa, anche».
Per un rilancio di alto profilo della carità come virtù teologale Sequeri dapprima richiama le due encicliche di Benedetto XVI, «essenziali per la costruzione del concetto: eros e agape, verità e carità», poi sottolinea la dimensione del “santuario” dove il primato di Dio-Amore si deve manifestare in un incantamento, un fermarsi contemplativo di fronte all’Eucaristia e, infine, offre un orientamento per pensare teologicamente (e far valere anche culturalmente) l’intreccio dei significati sotto la regìa della “virtù teologale”. E lo ricava dall’incipit del celebre “inno alla carità” di San Paolo: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13, 1-3). «Capite – ha concluso Sequeri – che cosa deve essere la carità, se la sua mancanza svuota totalmente di valore anche i segni più alti della pratica della fede, della testimonianza, della donazione?».
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La relazione di Sequeri, mettendo al centro la carità come virtù teologale, cioè come dono di Dio e non come effetto dell’agire umano, ha suggerito in filigrana molte sollecitazioni culturali che hanno animato – interagendo anche con alcune suggestioni dell’Arcivescovo – un ampio dibattito sia nel pomeriggio di sabato che nella mattinata di domenica.
Anzitutto è emersa, dagli interventi in aula, la necessità di uscire dal dualismo carità- cultura, chiarendo che la carità non è filantropia, e di partire dall’umano, cioè dalla dimensione degli affetti, per rileggere la carità nella logica trinitaria, che dice il rispetto delle differenze e delle persone, garantendo la comunione. Di qui l’invito a vivere la dimensione trinitaria nella vita delle nostre comunità, a far emergere che è possibile implicarsi, a partire dalla realtà e dai bisogni, con una proposta che possa, in dialogo con la cultura contemporanea, indicare orientamenti efficaci per il bene comune.
Molto ripresa la suggestione del “santuario” e dell’ “incantamento”, lanciata da Sequeri e ripresa dal Cardinale Scola, che si può riassumere in una domanda, cui diversi consiglieri hanno cercato di dare risposta: «Dobbiamo fermarci all’irradiazione dell’incantamento, lasciando che ciascuno lo manifesti con la propria testimonianza oppure possiamo insieme individuare stili virtuosi che mostrino quell’intreccio tra carità e cultura che può maggiormente parlare al mondo?».
Altri interventi hanno, invece, cercato di evidenziare il primato di Dio di fronte a qualsiasi iniziativa caritativa, per far emergere la verità della Carità che illumina il rapporto tra agape ed eros, anche valorizzando la categoria del “voler bene” in contrapposizione con la posizione arrogante di chi pensa di “possedere il bene”.
Sono pervenuti, inoltre, suggerimenti per ripensare il rapporto tra l’impegno delle opere poste in essere dall’esperienza di carità cristiana e le istituzioni pubbliche, affinché si superino atteggiamenti strumentali e logiche di supplenza che snaturano la loro ispirazione ideale. Ma anche un’attenzione al lessico per ridare verità alle parole “amore”, “carità”, al fine di garantire un dialogo anche con culture diverse. Non ultima, la proposta di valorizzare il patrimonio artistico della nostra Chiesa (in tutte le sue espressioni) in dialogo con la cultura contemporanea, per far emergere una proposta di vita buona per tutta la società.
L’Arcivescovo, nella seconda parte della mattinata di domenica, interviene nel dibattito riprendendo le parole di Sequeri coniugandole con quanto emerso dagli interventi e proponendo nuovi stimoli per una lettura proficua del tema “carità e cultura” e delle sue molteplici implicazioni. L’intervento dell’Arcivescovo si conclude, raccogliendo l’invito di due consiglieri, con la riproposta del metodo di vita cristiana che si legge in Atti 2,42: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere… Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune… Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo».
Ascoltiamo dalla viva voce dell’Arcivescovo le parole conclusive della VII Sessione: la freschezza e la spontaneità del parlato è senz’altro più suggestiva e coinvolgente di qualsiasi mediazione di scrittura.