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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Montini e i malati

Pastore dei poveri e dei sofferenti

Entrato da Arcivescovo a Milano da nemmeno ventiquattro ore, era già in visita al Policlinico: «È dal dolore che verrà la guarigione e la redenzione». Parla il cappellano monsignor Giorgio Colombo, che sul «Parroco della Ca’ Granda» ha scritto un libro

di Annamaria BRACCINI

22 Settembre 2014

«Veramente è per me motivo di grande commozione il trovarmi in mezzo a voi, che costituite come una famiglia, una Parrocchia di dolore e sofferenza». Era entrato solennemente a Milano da nemmeno ventiquattro ore, l’arcivescovo Giovanni Battista Montini, ed era già, il 7 gennaio 1955, al Policlinico. Una visita desiderata, non di routine, che – come tutte quelle compiute all’inizio del suo episcopato – definiscono bene il senso della vicinanza del nuovo Pastore alla sua gente. Il mondo del lavoro e della sofferenza, prima di tutto. Continuava, infatti, in questo discorso pronunciato, appunto, il 7 gennaio 1955, rivolgendosi a un folto gruppo di malati, medici e infermieri: «Voi sapete cosa sia il dolore, perché nel dolore siete immersi. Ma forse più di voi questo dolore colpisce e impressiona chi lo vede dal di fuori, perché in voi la dolorosa consuetudine con la quotidiana sofferenza ha già portato almeno il conforto della cristiana sopportazione. Voi conoscete la sofferenza perché la vivete».

Ecco, sta qui il punto di una missione che, come Vescovo, Montini vedeva in prospettiva e avrebbe interpretato fino al 1963, con una modernità che oggi potremmo definire, nella logica della nuova evangelizzazione. Aveva compreso, il futuro Paolo VI, che la questione non era «aggiungere» qualcosa a Milano, ma far riscoprire le radici di una fede comunque diffusa anche se già segnata dalle difficoltà del cambiamento in atto.

Così si può, forse, leggere, in senso simbolico, anche un’altra bella espressione di quel discorso al Policlinico: «È dal dolore che verrà la guarigione e la redenzione», aveva scandito davanti ai degenti: l’allusione – fine come sempre -, era per il male concreto, dunque, per la malattia del corpo, ma perché non vedervi anche un richiamo alla sofferenza spirituale, complessiva, di un mondo ferito, chiamato alla redenzione dalla croce del Signore, da quel «Cristo fratello che sublima e santifica il dolore»?

«Quel discorso fu anche il suo primo da parroco della chiesa annessa all’ospedale», ricorda monsignor Giorgio Colombo, che proprio per scelta del cardinale Montini divenne, nel 1961, cappellano dell’Ospedale Policlinico di via Pace e assistente della chiesa dell’Annunciata.

«Come è noto – prosegue monsignor Colombo che a Montini ha dedicato anche il volume Il Parroco della Ca’ Granda – gli Arcivescovi di Milano, dal 1458, quando papa Pio II approvò il decreto di fondazione dell’Ospedale Maggiore, sono anche titolari della parrocchia all’interno dell’ospedale stesso. Montini ne era particolarmente felice. Si può dire che in tutti i suoi anni in terra ambrosiana, l’Arcivescovo ebbe una delicatezza e un’attenzione particolari verso i malati. Scrisse più volte e diceva spesso che il dolore è una lezione cui il Signore ci invita».

Una «lezione» che l’Arcivescovo volle apprendere fin dai suoi primi giorni in Diocesi, se anche l’8 gennaio 1955 decise di recarsi tra le corsie, a Niguarda?
Senza dubbio. Alla Ca’ Granda visitò i reparti dell’accettazione e del pronto soccorso, prima di andare in chiesa e, dopo, altri padiglioni, tra cui il “Granelli”, dove sarebbe tornato, solo pochi mesi dopo, lui stesso da malato. Vorrei anche sottolineare l’allocuzione che Montini tenne il 25 marzo 1956, nella festa liturgica dell’Annunciazione (cui è dedicata la parrocchia dell’ospedale) e nell’anno del V centenario di fondazione della Ca’ Granda. “Noi possiamo compiacerci che la fondazione dimostri, fin dall’origine, alcuni caratteri che preludono alla moderna assistenza sanitaria […]. Ma non minore compiacenza noi oggi proviamo osservando che lo spirito, donde mosse la gloriosa istituzione, ne accompagnò il laborioso e ascensionale cammino, associando allo sforzo civile e sanitario quell’energia spirituale incomparabile che si chiama la carità. L’ospedale nasce infatti civile, ma non laico”. Questo a dimostrare la modernità della visione montiniana anche riguardo alla vicinanza e alla cura concreta e religiosa dei sofferenti.

Pietà e carità possono essere considerati due punti-cardine dell’episcopato del futuro beato e del pontificato di Paolo VI?
Non vi era nulla di “esteriore” nel suo avvicinarsi al bisogno umano, qualsiasi esso fosse. Nel 1959, per la riapertura al pubblico e all’Università degli Studi, della chiesa dell’Annunciata, non a caso, aveva detto: “Un senso di onore e letizia mi succede nell’animo al pensiero che il mio ministero sia splendidamente qualificato come quello di Pastore dei poveri e dei sofferenti”. Una pietà umana e cristiana continuamente esercitata e che trovò a Milano un terreno fecondo di apostolato e una risposta, da parte della gente, superiore, molto spesso, a ogni aspettativa.

Anche nella grande Missione di Milano nel 1957, Montini volle inserire il personale infermieristico e compose anche una preghiera per le infermiere…
Sì e ciò testimonia, ancora una volta, quanto all’Arcivescovo stesse a cuore il popolo affidatogli. C’è un episodio che, credo, delinei a pieno questa sollecitudine. Un pastorello della Valtellina, Primo Piccagnone, del paese di Sant’Antonio Morignone, era rimasto paralizzato per una caduta, a undici anni, mentre pascolava le pecore. Fu ricoverato infine al “Gaetano Pini”, ma qui non poteva restare a lungo. Era stato abbandonato dalla famiglia e sarebbe senza dubbio andato incontro a un triste destino se il cardinale Montini non fosse venuto a conoscenza della vicenda e non si fosse interessato personalmente per il suo definitivo soggiorno presso la “Sacra Famiglia” di Cesano Boscone. Nel pellegrinaggio diocesano a Lourdes, nel 1958, il giovane incontrerà l’arcivescovo Montini. Dopo la sua elezione al Soglio di Pietro, il ragazzo scrisse al Papa che avrebbe offerto la sua vita e le sofferenze per il Pontificato. Morì a 21 anni nel 1966. E rimangono, allora, negli occhi quelle fotografie che ritraggono spesso l’Arcivescovo chino sulla sofferenza, davanti ai piccoli piagati dal dolore innocente: i più vicini al suo animo di Pastore, come aveva confidato a un altro grande beato, don Carlo Gnocchi.