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Parla Hani al-Hayek, sindaco di Beit Sahour «LA NOSTRA VITA IN UNA PRIGIONE A CIELO APERTO»

22 Dicembre 2006

«…Essere cristiani non ci rende diversi e non ci procura vantaggi. Solo creando nuovi posti di lavoro si può evitare l’emigrazione. E per il futuro sono molto pessimista: fra qualche anno non ci saranno più cristiani palestinesi in Terra Santa…»

di Fadi Abou Sada

Hani al-Hayek è cristiano, sposato con 4 figli, ed è stato eletto un anno e mezzo fa sindaco di Beit Sahour, più noto come il “Campo dei pastori”, luogo che ricorda l’annuncio dell’angelo ai pastori. Con Betlemme e Beit Jala, Beit Sahour costituisce una sorta di triangolo della cristianità in Terra Santa, nel quale, nonostante la continua emigrazione verso l’Occidente, si registra ancora una significativa presenza cristiana.
Al-Hayek è membro del partito di Al-Fatah, il partito fondato da Arafat. Secondo una legge non scritta, voluta da Arafat in persona, il sindaco di Beit Sahour è cristiano. Lo stesso accade a Betlemme, Beit Jala e Ramallah. In questo modo Arafat intendeva salvaguardare la cristianità di questi luoghi, legati direttamente e profondamente alla vita terrena di Gesù. Beit Sahour conta oggi 15.500 abitanti; i cristiani rappresentano l’80% della popolazione. Sono presenti quattro confessioni cristiane: la Chiesa greco-ortodossa (la più numerosa), la Chiesa latina, la Chiesa melkita cattolica e la Chiesa luterana.

Quali sono le preoccupazioni degli abitanti di Beit Sahour e della provincia di Betlemme in genere?
Le preoccupazioni più urgenti sono legate al lavoro. Il primo problema è quello della disoccupazione. La nostra regione vive grazie al turismo e ai pellegrinaggi e la maggior parte dei cristiani lavora nei pochi alberghi che ci sono, nei ristoranti, nei negozi di souvenir… Il costo della vita è alto e un padre non può dormire tranquillo se non ha provveduto alla propria famiglia: la preoccupazione di dar da mangiare ai propri figli accomuna i cristiani ai musulmani. E poi c’è il problema dell’educazione dei bambini. 

Qual è l’effetto del muro di separazione che il governo israeliano ha costruito intorno alla vostra città?
Beit Sahour è circondata da questo terribile muro. Non possiamo andare a Gerusalemme, a dieci chilometri da qui: l’esercito israeliano non ci permette di andare a pregare nella Basilica del Santo Sepolcro. I turisti stranieri, invece, possono venire e girare ed entrare in qualsiasi città: è come vivere in una prigione a cielo aperto. Il muro è stato costruito per dividerci e ha causato la perdita del lavoro per centinaia di miei concittadini, che prima lavoravano a Gerusalemme. Ma il muro causa anche problemi psicologici, soprattutto ai bambini e ai giovani, sempre racchiusi in un piccolo territorio. Il muro non ha nessun legame con la realtà: è una divisione puramente politica. Finirà per distruggere ogni possibilità di pace e di dialogo fra le parti.

Vede una possibilità di soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano?
No. Gli equilibri di oggi non permettono una soluzione immediata. Non bisogna dimenticare che siamo una piccola parte di un gioco molto più grande, che si gioca in tutto il Medio Oriente. Non siamo da soli, noi e gli israeliani, in questo gioco. E gli israeliani non si preoccupano di risolvere la situazione: la conferma sta nell’ultimo massacro a Beit Hanoun, nel nord di Gaza. Sanno che la soluzione è in uno Stato palestinese indipendente e libero, capace di vivere da solo, ma non possono darcelo. 

Com’è il rapporto tra cristiani e musulmani?
Buono, con le naturali difficoltà che capitano in ogni società. Alcuni vogliono ingigantire gli aspetti negativi, ma in generale la situazione è sotto controllo. Anche se non sappiamo come sarà domani. Si sta risvegliando l’integralismo islamico: un fenomeno passeggero o duraturo? Vedremo…
I cristiani palestinesi emigrano lentamente, ma progressivamente dalla Terra Santa. Riuscite ad aiutare quelli che decidono di restare?
Purtroppo la cosa non è così facile. La Chiesa cattolica è la sola a impegnarsi davvero, aiutando tutti, cristiani e musulmani. Noi cristiani palestinesi siamo sicuramente i meno aiutati da tutti gli altri. Essere cristiani non ci rende diversi e non ci procura vantaggi. E la questione dell’emigrazione dei cristiani si può risolvere solo creando posti di lavoro. La nostra gente è colta, ma spesso è costretta ad accettare impieghi non all’altezza della sua preparazione.

Quale futuro vede per i cristiani palestinesi?
Purtroppo sono pessimista. Fra qualche anno non troveremo cristiani palestinesi in Terra Santa. Saranno sparsi in tutto il mondo. Se negli anni Quaranta rappresentavamo circa l’8% della popolazione dei Territori palestinesi, oggi siamo meno dell’1,5%. Una situazione drammatica, senza soluzioni immediate.

Cosa possono fare gli europei per i cristiani palestinesi?
Due cose principali: premere su Israele perché faccia giustizia e aiutarci a creare nuovi posti di lavoro. È un’urgenza politica e una economica.