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San Vittore

«Papà Dionigi» in carcere «discese sino agli inferi»

Il rapporto di grande vicinanza ai detenuti nelle parole del cappellano della Casa circondariale

don Alberto BARIN Cappellano di San Vittore

16 Settembre 2011

Quanti giovani, adolescenti e ragazzi, in questi mesi estivi, sono stati provocati per salire le montagne, raggiungere i rifugi, scalare le vette? Da giovane prete anch’io educavo a una spiritualità che puntava più verso l’alto, che non verso il basso. Oggi porterei d’un fiato sulle alte vette per sollecitare a discendere con calma, facendo attenzione, raccogliendo in se stessi quanto di più piccolo, fragile, povero, sporco si possa incontrare. Con delicatezza, senza giudizio alcuno.

Del nostro cardinale Dionigi diremmo questo: è stato per noi un amico capace di discendere a valle, dimostrandoci che questo è ancor più divino che il salire verso chi sa poi dove. Provocazione e spesso invito alla trasgressione, anche nella Chiesa, solita ad ascendere che non a discendere, a riempirsi, colmarsi, gonfiarsi piuttosto che farsi vuoto per accogliere e ospitare. Siamo grati a un vescovo, chiamato in carcere, «nostro papà» (così come suor Enrichetta era accarezzata come mamma), per non aver disdegnato mai l’invito a raggiungerci sino agli inferi. San Vittore, terzo cimitero della città di Milano, luogo sepolcrale, agli estremi confini di una società, che emargina i più poveri e crocifigge i malfattori, è sempre stato nel cuore di questo vescovo, Casa da visitare, indicandolo a tutti come luogo teologico: «Dove abbonda il peccato, lì sovrabbonda la Grazia!».

Ogni visita, una sorpresa. Nessuna ripetizione noiosa e formale. Capacità umana di meravigliare, incontrando personalmente i volti sofferenti, entrando nelle celle tra i detenuti ristretti in modo disumano, presiedendo celebrazioni eucaristiche come conviti fraterni, camminando con passo leggero lungo i corridoi delle sezioni più schifose, raggiungendo gli angoli più oscuri di una realtà affamata di vita. «In questo carcere si trasuda d’amore», mi confidava un giovane appena arrestato. Abbiamo più volte visto con i nostri occhi il vescovo commuoversi, sino alle lacrime, perché capace di intercettare questa sete d’amore, il desiderio d’essere conosciuti, questo grido di non essere abbandonati, ma abbracciati con autentico affetto. Un uomo pronto a dare risposta e sostegno alla voglia così umana d’amare. Che ve ne pare?

Poi, disceso tra noi, lo abbiamo sentito alzare la voce, per risvegliare Chiesa e società in difesa della nostra dignità. Nell’atto quasi di salire sul muro di cinta ha denunciato il male di strutture che non evolvono, ma si irrigidiscono contro l’uomo. Nel discendere in fondo a drammi insopportabili ha cercato di scuotere una giustizia troppo lenta, poco attenta, spesso lei stessa prigioniera di codici, di burocrazia, di respiro corto e angosciato. Ha invocato atti coraggiosi di clemenza. «Quest’uomo a nome nostro, pare parli di se stesso, della sua stessa sorte», mi diceva un detenuto dopo una visita del vescovo. A dire: «Il nostro futuro, sembra addirittura essere il suo. La possibilità di vivere ancora, pare che sia la sua stessa preoccupazione di poter ricevere dalla vita occasioni buone per stare bene».

Lo Spirito ci regali sempre Pastori con il cuore di un agnello. Ci piacerebbe chiamarlo «Spugna di Dio». Siamo certi d’essere stati assorbiti, d’aver trovato posto, di essere stati scelti, in modo preferenziale, non per merito, ma per bisogno, non per essere i più santi, ma i più poveri e i più peccatori. E non abbiamo vergogna a riconoscerlo. Anzi, permetteteci l’azzardo, ma noi questo vescovo lo abbiamo sempre sentito amico, perché si è posto come peccatore tra i peccatori, fragile tra i deboli, piccolo tra gli umiliati, prigioniero tra i carcerati. Ci viene da chiedergli perdono se gli abbiamo appesantito la vita. Se lo abbiamo “costretto” a prendere posizione attirandosi le ire di qualcuno. Se lo abbiamo trascinato nei vortici infernali dei nostri drammi personali. Se gli abbiamo rubato tempo prezioso scrivendogli infinite lettere. Se lo abbiamo sequestrato per travasi di speranza. Se lo abbiamo fatto soffrire per noi, le nostre famiglie, i più piccoli delle case nostre, ma soprattutto se gli abbiamo procurato pene a causa nostra, ma nel nome del Vangelo. Ciò che dalla Cattedra di San Vittore e di tutte la carceri da lui visitate, lascia come testimone, è un grande insegnamento sulla riconciliazione, volto inedito di una giustizia che fatica a germogliare. Grazie! E di nuovo e per sempre l’attendiamo agli inferi!