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Liturgia

«Osanna, benedetto colui che viene…»

La celebrazione che segue la processione con rami di palma e ulivo suscita un’impressione gioiosa: una grande folla va incontro a Gesù, che entra in Gerusalemme cavalcando un asino

di Luigi NASON

29 Marzo 2012

La Domenica delle Palme ci introduce nella Settimana Autentica in cui, più intensamente, siamo chiamati a rivivere il mistero di passione, morte, glorificazione della Pasqua del Signore. La celebrazione che segue la processione con rami di palma e di ulivo suscita un’impressione gioiosa: una grande folla, accorsa per la festa ebraica, va incontro a Gesù, che entra in Gerusalemme cavalcando un asino, gridando: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (Gv 12,13). Il gesto è letto alla luce di un annuncio profetico di Zaccaria (Zc 9,9-10). Gesù entra nella città santa come un re «umile e giusto» cavalcando un asino, non un cavallo, usato per la guerra. Infatti viene per far sparire gli strumenti di guerra e annunciare la pace a tutte le genti.

Quest’opera di pace passa per la via umanamente assurda della morte in croce. Non vi è, infatti, una teologia della gloria che prescinda da una teologia della croce, ci dice l’autore della lettera ai Colossesi (1,15-20) ricordando l’evento drammatico della morte in croce e il suo effetto di riconciliazione universale. La pienezza della salvezza ci è donata nella Pasqua di Gesù, il Figlio che riconcilia tutte le realtà con la sua croce e diviene artefice di vita con la sua resurrezione.

La liturgia propone poi il racconto della cena e dell’unzione di Betania, sei giorni prima della Pasqua. Non è l’unico racconto evangelico di donne che ungono il capo o i piedi a Gesù, ma solo qui la donna ha un nome, Maria. Gesù va a casa di Lazzaro e in questa parentesi di pace domestica Marta serve a tavola, Lazzaro è uno dei commensali mentre Maria fa qualcosa di inaspettato: con puro nardo, assai costoso, unge i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli. Con un solo gesto d’amore autentico sembra voler consumare, insieme al prezioso nardo, tutti i calcoli perversi di Giuda, le paure dei discepoli, la disapprovazione dei farisei, il turbamento di Gesù di fronte alla sua morte imminente. Maria tace, non parla neppure con Gesù, ma il silenzio è più eloquente di ogni discorso e il commento del narratore che «tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» sembra indicare approvazione per il gesto tenero e di confidente abbandono di Maria.

Chi disapprova è Giuda, nel cui cuore ormai le tenebre hanno preso il sopravvento e sulle cui labbra il richiamo ai poveri suona quindi come frutto di un calcolo interessato. Il nardo non va sprecato perché il suo profumo, di cui si impregnano poi i capelli di Maria, si diffonde ovunque. È lo stesso profumo dell’infinita gratuità, del dono totale e senza riserve, dell’amore che non si ferma davanti a nulla di cui ci parla la croce. Nel gesto dell’unzione a Betania è certamente prefigurata l’unzione che precederà la sepoltura di Gesù, il re Messia che si incammina, profondamente turbato ma obbediente, verso la morte in croce per donarci la vita.

Nella Settimana Autentica brani di Giobbe e di Tobia

Nei primi tre giorni della settimana la liturgia, con brani dei libri di Giobbe e di Tobia, prefigura nella sofferenza di due giusti quella di Gesù, il giusto per eccellenza. L’autore del dramma di Giobbe riprende probabilmente un’antica novella, la riplasma e la colloca a cornice letteraria del dramma (Gb 1-2 e 42,7-17). Essa presenta un Dio, presidente della corte celeste, che tra i suoi consiglieri ha il satan, termine del linguaggio forense che designa una funzione non una persona («pubblico ministero», diremmo oggi).

Lo incontriamo anche nel libro di Zaccaria come accusatore del sommo sacerdote Giosuè (Zc 3,1-10). Nella lettura liturgica viene proposta parte della novella (2,1-10; 42,7-10), parte della risposta di Giobbe a uno degli amici, Elifaz di Teman (16,1-20) e la conclusione del dramma (42,1-6), purtroppo in una traduzione che crea ostacolo alla comprensione. Giobbe è uomo integro, retto, venera Dio ed è avverso al male, ma un giorno deve fare i conti con le insinuazioni del satan sulla natura della sua religiosità: il solerte funzionario del dubbio sfida Dio a verificare le motivazioni dell’agire di Giobbe; Dio accetta la sfida e lo lascia sottoporre a terribili prove per dimostrarne l’integrità. Giobbe vede morire tutti i suoi figli, perde tutti i suoi beni ma continua a benedire Dio. Il satan, per non perdere la scommessa, avanza una seconda richiesta: «Colpiscilo nelle ossa e nella carne: scommetto che ti si metterebbe contro per maledirti!». Giobbe si ritrova pieno di piaghe dalla testa ai piedi, lui, ricco e potente, è ridotto a una larva d’uomo, costretto a grattarsi con un coccio, preso in giro dalla moglie perché non maledice Dio, attorniato da falsi amici che, venuti a consolarlo, vogliono indurlo a pentirsi, convinti che le disgrazie siano una giusta punizione divina. Giobbe non si arrende, non si pente, si ribella, arriva a maledire il giorno in cui è nato, pronuncia discorsi pieni di forza, di ribellione, accusa Dio di averlo consegnato come preda all’empio e gettato nelle mani dei malvagi (16,11).

Il nome stesso è una cifra sintetica della sua vicenda paradossale. Come la maggior parte dei nomi semitici Giobbe (’ijjob) è un nome teoforo, che significa «dov’è il padre?» e si scrive con le stesse consonanti, vocalizzate diversamente, della parola ’ojeb, «nemico». Nel nome c’è già tutto il dramma della vicenda: «Sei tu, Dio, per me padre o nemico?» (cf 13,24; 19,11; 33,10).

La novella presenta un Dio e un Giobbe diversi rispetto al dramma e il suo autore finge una religiosità che non può resistere alla prova: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore». Nel dramma, invece, Giobbe, lottando con Dio e percorrendo un difficile cammino, scopre che il discorso sull’alleanza e sulla retribuzione va interpretato dentro il confine di una finitudine della creatura tutta da capire.

È importante soprattutto la conclusione, quando ormai Giobbe ha capito che Dio è aldilà di un bene e di un male esclusivamente fissati: essi vanno collocati in uno spazio ignoto di una creazione che è sotto il dominio di Dio: «Ma Tu sapevi che tutto avresti potuto e nessun progetto è al di là della tua intelligenza… “Chi è colui che oscura il [mio] progetto da ignorante?” È vero! Parlavo senza comprendere… “Ascolta… parlerò io; ti farò domande, tu m’istruirai…”. Avevo udito di te per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò continuo a rifiutare polvere e cenere, ma ne sono consolato!». Il dramma si conclude: Giobbe non si pente di nulla e Dio stesso dice agli amici «non avete parlato di me in modo corretto, come il mio servo Giobbe» (42,7). Giobbe ha capito: non può colpevolizzare Dio per quanto non ha compiuto e può quindi concludere affermando: Io continuo a rifiutare il limite di questa creazione; però so di fronte a Te di aver trovato il consolatore.