Quante volte è stato detto e ripetuto ai giovani che il lavoro non è più un posto ma un percorso? Che devono essere attivi e darsi da fare, fino ad essere imprenditori di se stessi? I giovani hanno ormai interiorizzato tali nuovi «imperativi» del mercato del lavoro e mostrano una grande capacità di adattamento e perfino di reazione, arrivando a inventarsi il lavoro; e però, allo stesso tempo, non si può dire che siano soddisfatti di una tale situazione e oscillano tra la rassegnazione e l’adattamento, pur senza dar vita a un’aperta conflittualità.
Buttiamo, allora, a mare la flessibilità? Ci opponiamo ad essa ideologicamente, senza se e senza ma, potremmo dire? Non sono di questo avviso. La flessibilità è elemento irrinunciabile di gestione e funzionamento del mercato del lavoro, in un contesto che vede le imprese fare i conti con un’accresciuta concorrenza e un elevato costo del lavoro (in particolare in una struttura economica fortemente terziarizzata come quella milanese).
E però, proprio perché il lavoro è un percorso discontinuo e tortuoso, ha bisogno di essere accompagnato e sostenuto, ripensando l’intera struttura della tutela dell’occupazione, offrendo quindi ai giovani un percorso, graduale e protetto, verso la stabilità, ovvero un ingresso duraturo, anche se per tappe, nel mercato del lavoro stabile. In questo quadro l’invito ai giovani a darsi da fare è giusto; ma esso può suonare retorico e addirittura ipocrita per certe fasce di giovani: essere attivi e imprenditoriali presuppone precondizioni e risorse (capitale culturale e relazionale, soprattutto) che non tutti posseggono nella stessa misura.
In ragione di ciò, la stessa flessibilità in ingresso può assumere valenze diverse: può essere un’opportunità per le fasce più forti e in un sistema come quello milanese, ma può rivelarsi una trappola per i segmenti più deboli (i giovani meno istruiti, quelli con titoli di studio inadeguati, coloro che hanno alle spalle famiglie con meno risorse relazionali e culturali, oltre che economiche, quelli appartenenti a mercati del lavoro meno dinamici e avanzati).
Chi possiede quindi un capitale culturale e sociale sufficiente a garantirgli il controllo delle situazioni nelle quali si trova a vivere è in grado di muoversi e navigare nella complessità, incertezza e fluidità, e di non lasciarsi travolgere dalla frammentarietà della propria vita, riuscendo a gestire l’ampiezza dei confini della propria identità e la costruzione di una propria identità personale e sociale.
Mi sembra, dunque, che andando oltre la sola leva della flessibilità si può sperare di migliorare le cose. In altri termini, occorre rendere esistenzialmente e socialmente tollerabile la flessibilità, che, altrimenti, rischia di ritorcersi contro i suoi stessi promotori: l’impresa e la società.
L’impresa, perché comincia a sperimentare la difficoltà di fidelizzare le risorse umane di cui ha bisogno; la società perché, se il lavoro diventa fonte di ansia, paura e insoddisfazione, sperimenta un allentamento dei legami sociali, poiché l’individuo si sente solo, tende ad allentare le relazioni con gli altri, a vivere in una perenne competizione per la sopravvivenza, ad accumulare dosi di aggressività.
Esattamente come abbiamo visto succedere in Francia, con queste ultime proteste giovanili, ma anche, mesi fa, con le rivolte nelle banlieues dei giovani immigrati di seconda e terza generazione, segnale dell’integrazione mancata di una gioventù che vive in una situazione segnata dalla precarietà della famiglia e del lavoro e che si ritrova forse come unico mezzo di comunicazione la violenza. (e.z.)