«Troppo a lungo abbiamo dato molta enfasi ai modelli mediali. Adesso per ricostruire l’anima di Milano è tempo di ripartire dall’umanesimo concreto, non quello a cui vorremmo assomigliare, ma quello che è già vissuto, sperimentato nei contesti della vita quotidiana, che è piena di bellezza. Bisogna ricominciare da qui». Lo sostiene Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e antropologia dei media all’Università cattolica di Milano.
Il cardinale Scola afferma che la città perde l’anima a partire dalla Milano da bere, con l’influsso decisivo delle televisioni commerciali e dei media intesi come industria culturale, «brodo di coltura» del processo distorsivo che sfocerà in Tangentopoli. Come valuta questa analisi?
C’è una circolarità tra le rappresentazioni dei media e quello che succede nel mondo sociale. Non sono per una visione deterministica, cioè questo modello ha determinato un passaggio, però sono consapevole e d’accordo con il Cardinale sulla proliferazione con l’accentuazione di questo unico modello antropologico della persona che ha soldi, che ha successo con le donne, che vive una vita edonistica. È il modello della Milano da bere che ha dominato negli anni ’80 e ’90. C’è stato un circolo perverso, tra l’emergere di una certa figura antropologica come modello ideale e le rappresentazioni mediali che hanno enfatizzato quest’unico tipo di figura di successo. Credo che ora sia giunto il tempo di un diverso umanesimo, di un modello antropologico non basato sulle vite da telefilm, ma sulla concretezza della vita delle persone.
Quali vie percorrere per ridare un’anima alla città?
Lungo le vie suggerite nel Discorso. Prima di tutto educare: Milano è la città che ha prestigiose sedi universitarie, è un luogo di educazione, dove vengono ragazzi da tutti i Paesi. Essendo docente universitaria ho moltissimi studenti stranieri e vedo come i giovani siano un terreno fertilissimo di cultura, sono ricettivi, hanno voglia, sono intraprendenti, si appassionano se riusciamo a trasmettere i significati in maniera bella. Questo essere un crocevia di popoli, che vengono qui per farsi educare, è un punto di partenza fondamentale per rigenerare un’anima umanistica della città.
Una città aperta, in movimento, che lavora e sa accogliere…
Esatto, il tema dell’uscire, dell’incontrare. Milano è anche un luogo pieno di persone che vengono da tutto il mondo sia per la mobilità di alto livello dell’impresa – di cui la metropoli resta comunque un nodo importante -, della cultura, dei media stessi; sia di quella mobilità di persone in cerca di lavoro, di una vita decente. L’immigrazione ha attraversato molte fasi e presenta questioni diverse da quelle dell’emergenza delle origini. Uscire, incontrare e accogliere è un punto da cui Milano può ripartire per riconquistare la propria anima di città che lavora, che offre lavoro, che è accogliente, che integra senza voler snaturare le culture che integra, ma nello stesso tempo chiedendo un’adesione, una collaborazione, una convivenza civile che faccia bene a tutti.
Insomma, Milano così può recuperare la sua anima unificante per il futuro…
Questi due punti – educare e incontrare – sono fondamentali e implicano un cambiamento di prospettiva, da un modello a cui conformarsi a un umanesimo concreto che parte da ciò che la realtà offre, da ciò che Milano è e non può dimenticare di essere. Da qui anche le altre vie come l’annunciare: Milano può testimoniare un modo di essere Italia operoso ma non ossessionato dall’efficienza e dal denaro; che è accogliente, ma anche esigente nel chiedere collaborazione e una cittadinanza attiva e rispettosa. Un modello in cui la città si offre come polo di eccellenza rispetto all’educazione e quindi testimoniare un’identità, sia all’Italia sia all’Europa, fatta di una tradizione positiva che può essere rilanciata oggi.
Nel dibattito dopo il Discorso qualcuno ha segnalato un disegno di egemonia nella società. Il Cardinale invece parla di testimoni e di società plurale. Cosa ne pensa?
Oggi è fondamentale passare dal piano dell’evangelizzazione attraverso il dare forma alla società a partire da un modello, quindi calandolo dall’alto, alla testimonianza che mobilita con la forza dell’esempio. Realisticamente un discorso di egemonie culturali non può essere fatto, perché la società è così secolarizzata, scristianizzata, anche violentemente contro la dimensione religiosa. Quindi il discorso dell’egemonia è fuori luogo e temere questa è pretestuoso. Forse è anche un bene che l’egemonia – da parte di una cultura che tutto sommato è ancora molto forte – sia stata messa in crisi costringendo a trovare nuove vie più vicine all’origine della propria tradizione che è di testimonianza. Gesù non andava per le strade a dire cosa le persone dovevano pensare, ma le incontrava, si rivolgeva alla parte più profonda e più intima di ciascuno, per porre domande che mettessero in cammino. Questo è ciò che possiamo fare oggi come credenti. Il Papa ci offre una testimonianza straordinaria – lo chiamo un sapere esistenziale – perché in ogni gesto, in ogni affermazione è contenuta la dottrina, il nocciolo della fede che però viene comunicato prima di tutto attraverso il medium di sé stesso. La testimonianza non è altro che la vita che parla delle verità in cui crediamo, perché ci hanno toccato profondamente. Il testimone è credibile proprio perché questo tocco si vede, traspare. Un modo che non è assolutamente egemonico, ma è mobilitante, perché il testimone essendo credibile è capace di mettere in movimento dei processi.