Confesso che da qualche giorno nutrivo la curiosità di conoscere cosa potesse pensare il Papa mentre si preparava a incontrare dei giovani preti. Il desiderio non mi ha lasciato nemmeno mentre ascoltavo il suo discorso, finché ho letto tra le righe una domanda: un prete può essere nomale? O meglio, un prete deve essere normale?
La risposta di Francesco è stata diretta. Un prete non può essere normale, se “normalità” è sinonimo di “tiepidezza”. Il tiepido si accontenta, è succube del successo e della gratificazione, e si adagia su ciò che piace a lui. Il prete non deve essere normale, se “normalità” fa rima con “mediocrità”.
Un prete può essere normale, se “normalità” è sinonimo di “santità”. Santo è colui per il quale è normale donare la vita. Il santo, ci insegna il patrono San Carlo, vive una vita normale perché vive una vita di conversione continua. La vita del santo è la vita del pastore che si nutre normalmente del colloquio della preghiera e dell’incontro reale con le persone. Al santo piace normalmente la semplicità: egli è semplice nella vita perché vive nella comunione genuina con il Signore e con i fratelli; egli è semplice nel linguaggio perché gli basta annunciare Cristo e diffondere la gioia del Vangelo. Il prete è chiamato a essere normale, se normalità fa rima con “santità” e “semplicità”.
Non è tutto. Con un piccolo sforzo di memoria ritorno all’inizio del discorso, quando il Papa, staccando gli occhi dal foglio, ha scandito queste parole: «Non dimenticate questo: Dio è il Fedele». Ecco l’ingrediente fondamentale: un prete è chiamato a essere normale perché non si stanca di contemplare il cuore di Dio, il Fedele. In Lui confida e da Lui impara la fedeltà alla sua Chiesa.