«Il cristianesimo in Occidente potrà rifiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei nostri contemporanei», così l’ex maestro generale dell’Ordine dei predicatori, Timothy Radcliffe, apriva il 30 ottobre scorso l’inaugurazione dell’anno accademico del Pontificio ateneo di Sant’Anselmo, citando di seguito l’esperienza-intuizione avuta con la visione del film Uomini di Dio sui monaci martiri uccisi nel 1996 in Algeria.
Mentre dobbiamo prendere atto che «nessuna azione ecclesiale è efficacemente pensabile, nel nostro tempo, al di fuori degli spazi della comunicazione», come affermava il pastoralista Lanza sul rapporto catechesi e comunicazione, occorre capire bene in che modo non ripetere l’annuncio in forme che non dicono più niente all’uomo di oggi. Il cinema, con il suo potenziale coinvolgimento, mentre aiuta l’uomo contemporaneo a leggere la situazione attuale, può diventare «veicolo» per un recupero di un linguaggio capace di creare dialogo, confronto, dibattito, arricchimento per una crescita umana, spirituale e cristiana.
Potremmo in questo senso formulare la stessa domanda che il teologo irlandese Gallagher pone al termine della sua riflessione a riguardo dell’evangelizzazione nel contesto contemporaneo: «Come possiamo rendere reale la sorpresa dell’amore di Dio attraverso linguaggi che raggiungono la gente oggi?». Constatata quella che chiamiamo una certa «desolazione culturale», egli propone sostanzialmente di tornare a recuperare il ruolo della «immaginazione» e della «narrazione della fede». Il cinema, pertanto, può costituire luogo e spazio per una riappropriazione simbolica del linguaggio della fede.
Gallagher porta come esempio l’esperienza del beato cardinale Newman: questi, dopo aver cercato invano di convincere il fratello ateo con ogni tipo di ragionamento in favore della fede cattolica, affermava, con dolore, di avere appreso che il rigetto della fede stessa non scaturiva da un difetto tanto dell’intelletto, quanto piuttosto del cuore. Secondo lo stesso teologo gesuita, è possibile applicare tale esperienza nell’oggi storico in cui viviamo: «Trasferendo la scoperta di Newman alla nostra situazione postmoderna, sembra ovvio che sia gli ostacoli come le speranze di una nuova evangelizzazione si trovino in quelle che Newman chiamò “gli antecedenti” o “predisposizioni”, cioè le zone pre-concettuali o “pre-religiose” dove si svolge il dramma della preparazione o meno della fede».
In questo “spazio”, allora, può inserirsi l’esperienza del cinema vista propriamente come praeparatio evangelica. In grado di nutrire quel “pre-religioso”, esso risulta capace di preparare il terreno per una piena accoglienza della fede: «Infatti – continua Gallagher – senza attenzione pastorale allo spazio pre-religioso della nostra umanità, le forme della fede religiosa mancano di radici e di credibilità, particolarmente all’interno della cultura di oggi». Ecco perché è necessario che l’immaginazione dell’uomo sia toccata, sia costantemente sollecitata.
Ancora meglio potremmo precisare, come afferma il teologo Alberto Ratti, che «l’appropriarsi della fede richiede preventivamente di venire in contatto con una realtà di fede attraente, non in primis convincente quanto piuttosto coinvolgente, che tocchi le corde profonde dell’animo umano e le faccia vibrare di risonanze vitali, risonanze di gioia, di senso, di “trovarsi a casa”». Per questo «la settima arte» può, nel contesto odierno, aiutare l’animo a interrogarsi sui vissuti e sui significati più reconditi della vita oppure ad elevarsi verso orizzonti più profondi e spirituali. Occorre perciò tornare a «narrare la fede, come la solida base della comunicazione della fede e nella fede» (Ratti).
In che cosa, però, consiste il linguaggio del narrare? Forse esso non è altro che «la possibilità di ripensare il mondo attraverso un racconto in un tempo dato dallo stupore», come lo definisce la filosofa Beatrice Balsamo. Per la catechesi, dunque, la forma della narrazione-visiva potrebbe diventare una «squisita» possibilità per ottenere risultati che, molte volte, sono sembrati per lo più irraggiungibili.