«È il momento di trovare un percorso comune che ha come premessa la testimonianza. E a Milano quella del mondo cattolico è ineludibile. La città è cresciuta su percorsi comuni con ideologie diverse. Nei suoi momenti straordinari di crescita e di coesione sociale ha sempre trovato le sintesi. Quindi quello del cardinale Scola è un discorso molto condivisibile e un contributo tanto più necessario in un momento come questo. Il mio ottimismo dipende proprio dalla voglia che vedo di ritornare a testimoniare». Alberto Meomartini è il presidente dell’Assolombarda. E riflette ad ampio raggio sul Discorso alla città che l’Arcivescovo ha pronunciato alla vigilia di sant’Ambrogio.
Il cardinale Scola parla di meticciato di civiltà e di culture: gli immigrati infatti sono presenti ormai in più generazioni. Quale ruolo giocano nella società di oggi? Milano ha saputo integrarli?
È un tema molto importante, perché ci porta a riflettere sul senso della città e della comunità. Spesso vengo tacciato di essere ottimista e probabilmente è vero. Cerco di essere positivo, ma esserlo è una categoria del possibile, dipende da noi. Milano 30 anni fa aveva più o meno 1.700.000 abitanti, gli esperti pensavano che sarebbero cresciuti di altri 400 mila. La cifra era giusta, solo che invece di crescere è scesa. La città ha avuto un’evoluzione differente da quello che ci aspettavamo. Una parte di queste presenze sono oggi gli immigrati. È una città radicalmente diversa per necessità, esigenze e composizione sociale. Milano è diventata grande con culture differenti: cattolica e socialista. E dall’attenzione della borghesia ai fenomeni di accoglienza sociale, contribuendo al bene comune fondando la Società Umanitaria, l’Asilo Mariuccia e le prime scuole serali d’Italia. Di fronte ai cambiamenti dell’industrializzazione, Milano ha risposto con una visione – che la caratterizzerà sempre – di messa in comune dei valori condivisi. Quindi ha visto amministratori che partecipavano alla vita civile della città, a quella economica e viceversa. Dunque, la storia di Milano è di un tessuto sociale, mai di individualità. Finché negli anni ’70-’80 c’è stata la grande sbornia dell’individualismo. E questo è il tema che coglie molto bene il Cardinale, guardandolo da laico e dal punto di vista dell’economia.
E cosa rimane da fare?
Di fronte ai problemi ineludibili di meticciato sociale, dovere di ciascuno di noi è di non dimenticarsi di mettere se stesso. Questo è il problema ed è il motivo del mio ottimismo: parallelamente alla crisi economica che ogni tanto ci vuole, torna la volontà di guardare lontano. Secondo un’indagine di Caritas, Assolombarda e sindacati un terzo delle imprese milanesi si occupa di politiche di accoglienza per l’aiuto agli immigrati. Si preoccupa di trovare la casa a chi viene a lavorare, di insegnare l’italiano. Quante fondazioni sono nate negli ultimi anni, quanto volontariato di accoglienza c’è, quanto impegno di Assolombarda per la formazione professionale dei giovani. Noi con i sindacati collaboriamo. Dunque, dopo la sbornia vedo i segni positivi nella rimessa in moto di una comunità ambrosiana positiva, di un nuovo tessuto sociale fatto di incroci di persone, di conoscenza e culture. Questo è il senso della città. Tra l’altro, nella crisi attuale di depauperamento generazionale e di cambiamento economico, le imprese più dinamiche sono quelle promosse da immigrati.
Società civile a rischio di frammentazione per la presenza di interessi corporativi, di dislocazioni in altre nazioni, poteri come gruppi di pressione. Da presidente degli imprenditori milanesi, come risponde a questa riflessione dell’Arcivescovo?
Questa è una riflessione condivisa. Nella mia esperienza di lavoro di tanti anni in Italia e all’esterno, i territori che si sviluppano di più sono quelli in cui la società non è disintegrata. Se ciascuno di noi pensa che fare il proprio lavoro basti, ci troveremo punto e da capo, perché il problema è stare integrati agli altri tra generazioni e tra istituzioni. L’associazionismo industriale sta perdendo il proprio ruolo, rimanendo solo controparte come era alla nascita. La sua vera missione oggi è di non essere più controparte, ma partner di qualcuno. È l’insieme che conta, non le singole cose, perché se non sono collegate con ciò che si trova intorno non servono a niente. L’Italia è nata sulle scuole professionali, sugli istituti tecnici, Ogni anno più o meno coinvolgiamo nei nostri programmi 10 mila giovani, è un numero impressionante. Allora, non c’è voglia di contrapposizione, purché nessuno rinunci al proprio ruolo e alla propria identità (una fede o un’ideologia) che non dobbiamo nascondere. Ma dobbiamo guardare lontano.
Infatti Scola parla di un tempo che domanda nuova cultura del sociale del politico. Questa prospettiva come sollecita gli imprenditori?
L’enorme danno della finanza facile è stato quello di guardare al breve termine, molti dirigenti premiati hanno contribuito a sfasciare le aziende perché dovevano monetizzare subito. E ciò di cui fa fatica a rendersi conto anche il mondo dei partiti. È necessario un nuovo modo di concepire i rapporti sociali e di guardare l’orizzonte. Si pensi al ruolo nel dopoguerra di persone di diversa formazione, un liberale come Einaudi o don Sturzo e De Gasperi: si trovano uniti nelle scelte epocali, una direzione di marcia di gente disperata ma che aveva speranza. Mia mamma mi diceva sempre: noi siamo usciti dalla guerra avendo la paura alle spalle e la speranza davanti. Molti giovani oggi hanno la speranza alle spalle e la paura davanti. Tutto questo dipende molto anche da noi, ciascuno ha un suo compito. Penso che la crisi stia facendo tornare di moda tre cose: il pensiero, l’impegno personale e la responsabilità. Su queste si sono costruiti lo sviluppo e la coesione sociale, senza rinunciare alla propria identità. Ora tutto questo negli ultimi tempi sta mutando, a Milano oggi è possibile fare cose che dieci anni fa era difficile fare.