di Luigi Roth
Presidente Fondazione Fiera Milano
Come previsto, Sua Eminenza il cardinale Carlo Maria Martini avrebbe parlato per ultimo. Era il 29 settembre del 2001 e tutti avevano ancora il cuore pesante per la tragedia che pochi giorni prima era letteralmente esplosa sugli schermi televisivi. Inoltre, il convegno, che la Fondazione Fiera Milano aveva ovviamente programmato mesi prima, si apriva nel segno de La cultura del dialogo e dello scambio in un mondo più unito e il titolo stesso, che avrebbe potuto suonare come un indicatore e un proposito della speranza, ora sembrava porsi come il drammatico riscontro, se non della disperazione, quanto meno dell’incertezza e della preoccupazione.
Senza dubbio, di un’opportunità mancata, che rischiava di rimettere in discussione anni di mani almeno apparentemente tese. Parlare per ultimo, che già non è facile quando gli altri, dai rispettivi punti di vista, hanno detto molto se non tutto, presentava quindi un’ulteriore difficoltà: quella che segna la insidiosa discriminante tra la partecipazione e la dissociazione, tra la comprensione e il giudizio, tra la strada che bisogna lasciare e quella che bisogna intraprendere.
Il cardinal Martini non ebbe esitazioni, non volle né consolare né esacerbare gli animi, né compatire né esecrare. Soprattutto non volle mettere la tragedia fuori di noi: «Una notte è calata sull’umanità, una grande oscurità ha invaso i cuori». E non soltanto perché incommensurabile è stato il dolore delle vittime e dei loro congiunti, ma perché questo dolore deriva da una «volontà di morte che ha sfruttato le più avanzate risorse della nostra epoca per farne strumenti di massacro e di dolore».
Affrontare il tema della globalizzazione, con tutte le sue contraddittorie motivazioni e conseguenze, ha significato, dunque, assumere su di sé queste contraddizioni, affrontarle a viso aperto, come in uno specchio, configurarle come un’occasione e uno strumento di interpretazione prima e di provvidenza poi.
Il cardinal Martini lo ha affermato senza mezzi termini: «Dare vita a una globalizzazione animata da una corretta cultura dello scambio significa mettere in atto un processo che non si traduca in una radice mortifera di esclusione e di emarginazione dei sempre più poveri, ma si proponga come una sorgente di inclusione progressiva di tutti nella partecipazione solidale allo scambio dei beni prodotti, nella convinzione che la grandezza di una civiltà si misura anche dalla sua capacità di condivisione delle proprie risorse con chi ne avesse bisogno».
Non leggeva il cardinal Martini, anche se il suo discorso rifletteva quanto era scritto su alcuni fogli che teneva tra le mani e che sarebbero successivamente serviti per la pubblicazione degli atti di quel convegno. Non leggeva, perché non stava semplicemente esprimendo delle riflessioni precostituite su un argomento prefissato. Stava parlando ai presenti, ma anche agli assenti, a tutti quelli che erano stati colpiti dall’immane tragedia, ma anche – ne sono convinto – a tutti quelli che l’avevano provocata, per odio, per disperazione, per incapacità di dialogare.
Parlava con le parole di Giovanni Paolo II, con le parole del magistero ecclesiastico, ma soprattutto con parole sue e quelle parole avevano lo stesso peso di ciò a cui si riferivano, di quella indicibile catena di eventi che in questo modo esponeva tra sé e gli astanti, in un gesto di assunzione di responsabilità che valeva di più di tante valutazioni, argomentazioni, proposte.
La conversione culturale su cui insisteva il cardinal Martini era, senza ombra di dubbio, la nostra conversione, la conversione dei credenti, chiamati a quella remissione del debito che non costituisce soltanto un problema di carattere economico, teso a liberare i più poveri da un fardello insostenibile, ma anche un problema politico e religioso, teso a liberare noi stessi, i più ricchi, dal senso di colpa per un mondo ingiustamente diviso e sofferente.
Era tanto tempo che, per quanti ascoltavano in un silenzio reverente, il “rimetti a noi i nostri debiti” del Pater Noster non assumeva un valore così diretto, così pregnante, così unificante: i debiti di tutti, di noi stessi e degli altri; i debiti in denaro e quelli in opere e omissioni; i debiti di una solidarietà a volte troppo e a volte troppo poco generosa; i debiti che derivano, come il cardinal Martini ha ribadito con le parole di Giovanni Paolo II, «dall’impegno per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti».
La pace, il dialogo, la convivenza: ci voleva coraggio per riportare il discorso, dopo averlo iniziato tra lacrime e sangue, sulla strada dell’intesa e della ricostruzione di una casa comune. Tante cose sono state dette, tanti aggettivi sono stati richiamati a proposito del cardinal Martini, per esaltarne la figura di religioso, di studioso, di pellegrino, di mediatore tra i popoli. A sentirlo parlare, quel giorno, nonostante tutto un giorno come gli altri, mi è parso che, fra le tante possibili attribuzioni encomiastiche, questa gli si addica più di altre: l’uomo del coraggio. Che comporta riflessività e determinazione, pacatezza e lungimiranza, la capacità, o forse l’ispirazione, di fare le cose giuste e di dire le parole giuste, non soltanto al momento, ma in ogni momento. Il coraggio, infine, di essere come si è e, tuttavia, sempre diversi da se stessi. Sempre un passo, un piccolo e grande passo più avanti.