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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Martedì 6 settembre FINALMENTE A SCUTARI

14 Ottobre 2005

Alle 9 del mattino il traghetto arriva nel porto di Durazzo. Ciò che colpisce di più, guardando il paesaggio dal ponte del traghetto, è il contrasto tra i ruderi del porto che sembra in disarmo e gli enormi cartelloni pubblicitari delle compagnie telefoniche di cellulari. Da una parte i “reperti archeologici” di un’economia, quella ereditata dal regime comunista, che non è stata sostituita da una più moderna, dall’altra il cellulare, simbolo di mobilità e dinamismo.

Dopo aver sbrigato le formalità doganali, partiamo per Scutari. Ben presto ho il primo impatto con le strade albanesi: buche di ogni dimensione rendono ogni spostamento un calvario. Chilometri a passo d’uomo, sobbalzando per le buche, mettono a dura prova ammortizzatori e stomaci.

Il primo impatto con l’Albania non è facile. Dal finestrino si scorge un paesaggio bello, ma abbandonato. Qua e là spuntano come funghi i bunker che quel pazzo del dittatore Enver Hoxa ha fatto costruire durante i 40 anni del suo regime. Ce ne sono circa 500 mila in tutta l’Albania e sarebbero dovuti servire per difendersi da un’eventuale invasione. Questi bunker sono il segno visibile del delirio paranoico di questo dittatore che si è proclamato comunista ed è riuscito a rompere i rapporti diplomatici con la vicina Jugoslavia, con l’Unione Sovietica e anche con la Cina. In nome di un comunismo “puro” ha isolato un popolo dal mondo. Quindici anni fa l’incubo è finito. Gli albanesi si sono ritrovati a vivere nel mondo, hanno scoperto che una vita diversa e migliore era possibile.

Giunti a Scutari siamo a pranzo dai genitori di Marieta. E mentre don Antonio e Marieta sono fuori per non so quali commissioni, rimango da solo in casa con Beniamino e Gloria. Beniamino mi racconta la sua vita. Parla un po’ l’italiano e pian piano mi racconta che nel 1944 suo padre, ex ufficiale della gendarmeria, e suo zio sacerdote sono stati fucilati perché ritenuti pericolosi per il nuovo regime comunista. La “colpa” del padre è poi ricaduta sul figlio: Beniamino infatti ha potuto studiare e laurearsi in lettere, ma non ha mai potuto insegnare. Il governo gli ha imposto infatti di fare l’operaio, proprio perché figlio di un condannato a morte dal regime.