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Intervista

Lodigiani: «In questo momento storico la dimensione culturale della fede è centrale»

La sociologa: «Le forti contraddizioni che viviamo oggi richiedono di interrogarsi sul senso, il significato e le implicazioni di ciò che facciamo»

di Pino NARDI

14 Settembre 2015

«È centrale il richiamo alla dimensione culturale della fede, perché questo difficile momento storico, segnato da forti contraddizioni, richiede più che mai di interrogarsi sul senso, il significato e le implicazioni di ciò che facciamo, crediamo, condividiamo, costruiamo». Rosangela Lodigiani, sociologa dell’Università cattolica e curatrice del Rapporto Ambrosianeum sulla città, legge la Lettera pastorale del cardinale Scola «Educarsi al pensiero di Cristo», cogliendone alcune ricadute nella società complessa.

Qual è la prima impressione della Lettera che l’ha maggiormente colpita?
La lettera ha diversi piani di lettura, ma il primo elemento che mi ha colpito è l’incipit iniziale che la contestualizza. Prendendo le mosse dal suo viaggio in Libia e in Iraq, il cardinale Scola si pone subito in rapporto con il lettore, condividendo l’urgenza di dare corpo alla “Chiesa in uscita di cui offre instancabile testimonianza Papa Francesco”. È rilevante perché con queste parole è come se cogliesse l’esigenza profonda di tutti noi di trovare la via per agire un cambiamento, scossi e impotenti di fronte alle sfide di questo tempo di cui le drammatiche vicende dei profughi, le tensioni e i conflitti che emergono nei contesti metropolitani, i fatti violenti che affliggono la cronaca del nostro Paese sono solo alcuni dei segnali più evidenti. È significativo che da questo incipit parta per proporci un cammino percorribile insieme, un cammino che ci porti ad assumere una postura nuova, capace di incidere nella quotidianità del nostro vivere e nella società.

Scola pone l’accento con forza sulla dimensione culturale della fede. Come lo valuta?
È la chiave di volta per ricongiungere pratica cristiana e agire quotidiano, che rischiano di correre su binari separati. Cogliere la fede come cultura significa riconoscere che essa dà senso e informa il nostro modo di agire, divenendo “mentalità stabile”, coinvolgendoci in modo integrale. La cultura è una dimensione costitutiva e distintiva dell’esperienza umana, cioè la qualifica, e non riguarda certo solo le conoscenze teoriche, la produzione intellettuale, ma è data dall’insieme di credenze, abitudini, modi di fare e pensare che si esprimono nella quotidianità, in famiglia, nel lavoro, nei luoghi di incontro e di scambio; è un patrimonio dinamico come la vita, per questo è fattore di innovazione e cambiamento. Portare in primo piano la dimensione culturale della fede significa riscoprirne la dimensione pubblica, richiamarci ad agire con coerenza in ogni ambito di relazione e impegno, con sguardo aperto ad accogliere il bisogno dell’altro, disponendoci al confronto in un contesto culturale sempre più plurale.

Un passaggio che lega la Lettera al prossimo Convegno della Chiesa italiana a Firenze…
Certo, indicando la strada di educarsi al pensiero di Cristo si pone in chiara continuità con i contenuti del prossimo Convegno ecclesiale. In questa prospettiva la Lettera consente di rileggere i verbi con cui il Convegno declina le cinque vie verso l’umanità nuova, consente di uscire, di guardare il mondo con sguardo rinnovato, anzitutto per abitarlo, cioè per immergerci in esso per leggerne e interpretarne le contraddizioni, avendo il coraggio dell’iniziativa, della testimonianza per incidere in esso.

Il Cardinale sottolinea il ruolo della Caritas e di altre aggregazioni nell’accoglienza e nella risposta a bisogni crescenti. Lei come valuta questo fenomeno?
Qui si apre un capitolo molto vasto, riguarda l’impegno nella nostra città della Caritas e delle tante organizzazioni della società civile nell’accoglienza e nella solidarietà. È un impegno che testimonia la capacità ambrosiana di leggere i bisogni sociali, mobilitare risorse, attivare risposte. Ma, se lo leggiamo nella prospettiva culturale suggerita, è ancor più testimonianza preziosa del fatto che da quei bisogni la città si lascia interpellare. L’agire della carità diviene così un agire che “fa” cultura, nel senso che trasmette un modo di vedere la vita, la realtà che ci circonda, il nostro prossimo. La dimensione culturale di questa azione è fondamentale anche se non sempre è adeguatamente valorizzata, perché l’imperativo di guardare all’efficienza e all’efficacia degli interventi rischia di prendere il sopravvento, mente il suo portato culturale e il valore che ne discende per la città è molto più ampio: segno tangibile di un’umanità e di una società nuove.