«Occasione privilegiata di incontrare un testimone della travagliata storia d’Europa, delle sue ferite e della sua speranza». Descrive così, il cardinale Angelo Scola, l’incontro mattutino del clero ambrosiano con il cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna. Diocesi composta da 660 parrocchie diversamente popolate, dai 100 fedeli della più piccola ai 10 mila della maggiore. Il 45% di queste comunità è retta da religiosi e un sacerdote su tre è di origine non austriaca. Anni fa erano numerosi gli italiani e gli spagnoli, ora invece i polacchi e gli indiani. Solo il 2% dei viennesi partecipa alla messa domenicale (a Milano il dato è intorno al 20%, mentre si sale all’80% contando chi partecipa almeno una o due volte l’anno): dati necessari per motivare il senso della presenza di Schönborn in Duomo.
Nella sua Diocesi la nuova evangelizzazione è già da tempo realtà. Per questo Schömborn, per usare le parole di Scola, «porta la testimonianza di cosa significa evangelizzare la metropoli». A Vienna meno del 40% dei cittadini si dice cattolico. «Il dato è in costante calo principalmente per tre motivi – spiega il cardinale austriaco -. In primo luogo la demografia: crescono nei numeri solo i neocatecumenali e musulmani». In secondo luogo «la possibilità dell’abbandono civile della Chiesa, che si effettua dal magistrato: molti di quelli che lo scelgono non si possono definire apostati, ma lo fanno per non pagare la tassa obbligatoria per gli appartenenti a una religione, o anche perché, sebbene battezzati, non hanno più contatti con la Chiesa». Il terzo punto è la continua perdita di prassi religiosa. Schönborn non nasconde che la sua terra ha vissuto «gravi scandali che hanno ferito molti dei nostri fedeli. Il mio predecessore ha lasciato il magistero a causa delle accuse di pedofilia e diversi hanno lasciato la Chiesa scandalizzati da questi eventi».
E dunque, in ragione di questi presupposti, oggi la situazione è radicalmente cambiata: «Siamo stati Chiesa di Stato per secoli, Chiesa imperiale. E ora siamo umiliati. Poveri, non ancora economicamente, ma umanamente». Ed è proprio «in questa situazione umiliata» che, secondo l’Arcivescovo, «il Signore ci chiama alla missione». Ma come vivere questa situazione di Chiesa diminuita e scoraggiata? «Focalizzando l’attenzione non sui problemi, ma su quello che Dio compie tra di noi». Un’intuizione nata dalla lettura degli Atti degli apostoli, «in particolare tre testi, che per noi sono diventati un faro»; l’ultima parte del capitolo 28, dove si legge che San Paolo, pur prigioniero in una casa a Roma, annuncia il regno di Dio senza impedimento. Il secondo testo è il capitolo 15, quando Paolo e Barnaba si recano a Gerusalemme per discutere con gli apostoli della necessità o meno della circoncisione. E lungo la strada raccontano Cristo a chi incontrano, dando poi conto agli apostoli di ciò che Dio ha operato, tramite loro, durante il viaggio. «Il cristianesimo è una comunità di racconto – sottolinea Schönborn -. Dobbiamo riscoprire il racconto vicendevole di ciò che Dio fa nella nostra vita». Nello stile «di accoglienza, ascolto, preghiera in comune». Quando Papa Benedetto si è recato in visita in Austria nel 2007, ricorda il Cardinale, «abbiamo chiesto ai Consigli pastorali parrocchiali di scrivere la continuazione degli Atti degli apostoli. Col racconto di cosa ha operato Dio nelle parrocchie negli ultimi 5 anni. E il Papa alla fine della visita ha chiesto di continuare a scrivere gli Atti degli apostoli». E infine il terzo testo, il brano evangelico che riporta il naufragio di San Paolo a Malta, lungamente meditato nelle parrocchie viennesi «nel modo in cui voi milanesi siete stati abituati dal cardinale Carlo Maria Martini». Nella sua Lettera pastorale, ricorda l’Arcivescovo austriaco, «Scola scrive della necessità di “non vedere prima la zizzania, ma il buon grano”. E su questa base rapportarsi con gli uomini».
Raccontando la propria esperienza ai 1200 sacerdoti milanesi presenti in Duomo, Schönborn spiega di «non potervi portare gloriose esperienze di missione, perché la missione va scoperta». E aggiunge di aver avuto una «delusione al recente Sinodo sull’evangelizzazione. I vescovi dovrebbero essere i primi evangelizzatori, ma tutti, nei loro discorsi, hanno aggiunto l’etichetta “evangelizzazione” su tutto ciò che già si fa». Per esempio il Battesimo, i corsi di preparazione al matrimonio. «Certo – ammette il cardinale -, sono un’occasione di primo annuncio, oggi sono missione. Ma non sono evangelizzazione». Se è vero che tutto, nella Chiesa, ha un impulso evangelizzatore, «c’è però una gioia speciale, indimenticabile dell’atto proprio dell’evangelizzazione. E questo si fa solo faccia-a-faccia. In parte anche con twitter, facebook, con i libri. Ma è nell’incontro faccia a faccia che Cristo opera l’evangelizzazione attraverso noi».
La Diocesi di Vienna sperimenta anche metodi non convenzionali per raggiungere chi è lontano dalla Chiesa. “Da alcuni anni a San Valentino – racconta Schönborn – distribuiamo nelle stazioni della metropolitana lettere d’amore di Dio ai passanti. Scritte a mano, contengono affermazioni di questo tipo: “Tu sei la mia più bella idea, ti invito, incontriamoci di nuovo”». Questo, aggiunge, «ovviamente non è il tutto dell’evangelizzazione, ma è qualcosa fatto personalmente tramite chi si rende disponibile a consegnare queste lettere. Scendere nella stazione significa trovarsi in una situazione un po’ ridicola, ma questo atto di contatto faccia a faccia cambia noi che lo operiamo, più che chi lo riceve. Ma forse anche loro». Papa Francesco «ci invita a cambiare lo sguardo. Io e i miei fratelli nel sacerdozio cerchiamo di capire come gestire le caselle entro cui cataloghiamo le persone. Sono necessarie per affrontare la società, ma devono essere considerate dopo essersi chiesti chi è la persona che abbiamo davanti». Come catalogare, e dove trovare il Signore, si chiede l’Arcivescovo, «nelle famiglie patchwork? Cioè quelle composte da divorziati, risposati, o da rapporti complicati? Come realizzare un’alleanza tra la verità da propugnare, che libera e salva, e la misericordia? Questa è la grande sfida della nuova evangelizzazione».
Emblematico un caso, di cui si è molto parlato, prosegue, «accaduto nella più piccola nostra parrocchia. Nel Consiglio pastorale fu eletto un giovane che vive con un altro uomo. È un ragazzo che partecipa alla messa, suona l’organo in chiesa. Li ho incontrati e ho visto due giovani puri, anche se la loro convivenza non è ciò che l’ordine della creazione ha previsto». Dall’incontro la decisione «di non toglierlo dal Consiglio pastorale. Attendevo le critiche, ma con quel gesto non volevo dire che sono d’accordo col cosiddetto matrimonio gay. Non sono per niente d’accordo. Ma ci sono situazioni in cui dobbiamo guardare prima alla persona. Papa Francesco ci mette davanti a questa sfida».
A Vienna il 60% dei matrimoni finisce con un divorzio: la famiglia cristiana non è il caso normale, ma l’eccezione, la norma è la patchwork family. «Cosa dice questo a noi preti? – si chiede l’Arcivescovo -. A imparare di nuovo cosa vuol dire vivere nella diaspora». Atteggiamento che Schönborn ha sintetizzato in «5 sì per la nuova evangelizzazione».
«1) Sì all’oggi, al nostro tempo. Lasciamo la nostalgia degli anni ’50, ’60, ’70. Dio ama il mondo di oggi.
2) Sì consapevole e deciso alla nostra situazione, cioè la decrescita dei cattolici. Vediamo buoni semi anche dove non c’è esplicitamente la Chiesa.
3) Sì alla nostra condizione comune di battezzati. La differenza tra il sacerdozio comune dei laici e quello ministeriale dei preti è di sostanza, non di grado. Non c’è un grado superiore dell’essere cristiano. Il sacerdozio comune ci fa fratelli, vicini, amici.
4) Sì a una Chiesa che impara passo passo a essere in diaspora, una diaspora feconda. Dobbiamo imparare una vita di rappresentanza, dove la fede non è vissuta solo per sé, ma anche per gli altri Impariamo dagli ebrei, convinti che se in una città ci sono 10 ebrei, questo è una benedizione per la città. I cattolici sono benedizione per la città.
5) Sì al nostro ruolo per la societa. Anche se siamo minoranza, anche se politicamente in molti campi – per esempio in Europa (penso alle recenti proposte di legge sull’aborto) – non abbiamo il potere di imporre la giurisdizione che ci piacerebbe, quella che risponderebbe al diritto naturale. Il sale è sempre minoranza, nel piatto. Ma i nostri gruppi, le nostre associazioni, sono una grande rete. E quanto più la rete sociale diventa fragile, tanto più diventano importanti le nostre iniziative per i più deboli».