Durante l’episcopato del cardinale Giovanni Battista Montini,
tra il 1955 e il 1963, l’intera diocesi di Milano
visse una stagione estremamente feconda
per quanto riguardava la progettazione,
la costruzione e la consacrazione di nuove chiese,
paragonabile, per novità e riforme, al clima instaurato,
quattro secoli prima, da san Carlo Borromeo.
di Luca Frigerio
Montini, ben prima di diventare arcivescovo di Milano, aveva riflettuto a lungo sull’arte sacra e sul suo significato nel mondo contemporaneo, spinto da un presante bisogno di un’assimilazione interiore del mondo sensibile alla luce della fede cristiana. Già come assistente della Fuci, ad esempio, alla fine degli anni Venti, egli aveva istituito un «Gruppo di studi artistici », dedicando tempo ed energie allo studio delle più diverse espressioni artistiche che in qualche modo si confrontavano con i grandi temi del Cristianesimo.
Montini, nei suoi molti scritti di allora su tale argomento, ammetteva di non avere teorie nè ricette da proporre , ma due fondamentali principi: il senso religioso che permane nell’umanità e la capacità di questa di dedicare al suo Creatore il culto in forma di bellezza.
Quella di Montini era dunque una vera e propria teologia della Bellezza, che trovò poi largo spazio soprattutto nei lavori del Concilio Vaticano II, ma che è ancor oggi fonte di ispirazione e di studio. «L’arte nuova cristiana deve essere uno sforzo verso il realismo ontologico della religione », leggiamo in alcune sue note. «Per questo si capisce come l’artista religiosamente ispirato, nella gioia di creare, si sottrae alla schiavitù del desiderio e del dolore». E ancora: «Penso che dove la verità tocca l’azione, là debba esserci una manifestazione di bellezza. Vissuta rende bella la vita, spontaneamente… Perciò l’artista cristiano può essere – sit venia verbo – il vero moderno».
L’arte religiosa del passato, insomma, per quanto mirabile, non può bastare, nè tantomeno servono le imitazioni, perchè ogni età deve saper esprimere il desiderio e il rapporto col sacro secondo un proprio linguaggio. Un concetto profondamente vero, ma affatto scontato negli anni in cui Montini lo andava elaborando.
Appena eletto vescovo di Milano, Giovan Battista Montini volle approntare un preciso piano di lavoro con il Comitato diocesano per le Nuove Chiese, di cui Enrico Mattei, presidente dell’Eni, era il nuovo presidente (impegno che portò avanti con forza e intellegenza fino al 1962, anno della sua tragica morte). Su un punto, in particolar modo, Montini e Mattei erano particolarmente concordi: la valorizzazione della presenza cristiana nelle periferie delle grandi città. «Noi siamo convinti che la Chiesa qui deve mettere in campo tutte le sue riserve», affermava l’ingegnere, « impegnando i suoi uomini migliori in una coraggiosa e agguerrita avanguardia».
Con questo spirito era sorta la chiesa di Santa Barbara, protettrice dei minatori, nel cuore del modernissimo complesso dell’Eni a San Donato Milanese, Metanopoli. Trasgressivamente moderno, ma tuttavia saldamente allacciato alla tradizione, con riferimenti stilistici al romanico lombardo e al rinascimentale toscano, il sacro edificio (progettato da Nizzoli e Olivieri e realizzato da Bacciocchi) presenta un luminosissimo presbiterio e un classico impianto basilicale, in cui trovano posto le opere di alcuni dei maggiori artisti italiani del nostro secolo, da Pietro Cascella ai fratelli Giò e Arnaldo Pomodoro, da Pericle Fazzini a Bruno Cassinari.
Al momento dell’ingresso di Montini a Milano, intanto, si concludono i lavori di altre due chiese che segnano una svolta decisiva nel linguaggio architettonico. Nella Madonna dei Poveri degli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, al centro del quartiere Ina-Casa di Baggio, «il messaggio di rottura è quello di un’architettura di tipo quasi industriale reinventato per una chiesa », osserva Cecilia De Carli. Sant’Ildefonso, invece, realizzata nel 1955 in memoria del cardinal Schuster, si pone su un principio di centralità, di perfetta coincidenza geometrica, architettonica, liturgica e urbanistica: l’altare, già rivolto verso i fedeli ancor prima delle disposizioni conciliari, secondo un’antica tradizione ambrosiana, testimonia un indirizzo molto preciso dell’architettura delle chiese montiniane.