Chi ha avuto la fortuna di partecipare al Congresso teologico-pastorale che ha aperto il VII incontro mondiale delle famiglie ricorderà la splendida relazione introduttiva del cardinale Gianfranco Ravasi, che aveva al centro l’icona della famiglia come casa. Una casa le cui fondamenta sono rappresentate dalla coppia, le pareti dai figli e dove ciò che, come il cemento, «tiene insieme» tutto – vita quotidiana, affetti, fatica, riposo… – è la fede nel Signore.
“Casa” è l’ultima parola che propongo di custodire come eredità di Family 2012. La casa, ovviamente, è ben più dello spazio fisico, peraltro essenziale: senza una casa decente, senza intimità e sicurezza, infatti, che famiglia si dà? La casa di cui parliamo qui è, per dirla con Ravasi, lo spazio che custodisce «l’intima comunione di vita e di amore…, la prima e vitale cellula della società», come il Concilio Vaticano II definisce la famiglia. Uno spazio, insomma, concreto e simbolico al tempo stesso.
Ebbene, la casa – come edificio, come luogo che dà tetto, riparo, accoglienza alla famiglia – è qualcosa che talora diamo per scontato. Come se tutti l’avessero. Al contrario, quando improvvisamente viene a mancare, della casa si avverte una profondissima nostalgia.
Proprio durante i giorni dell’Incontro mondiale delle famiglie, la Chiesa – e il Papa in primis – manifestò la sua vicinanza a quanti erano stati colpiti dal terremoto. Durante la veglia in Duomo, toccò a monsignor Roberto Busti, vescovo di Mantova (una delle città colpite dal sisma) dar voce al profondo senso di spaesamento che investe chi si vede privato di colpo di un bene prezioso come la casa: «La suggestiva immagine degli elementi costitutivi della casa-abitazione, usata dal cardinale Ravasi per descrivere la realtà della famiglia – disse in quell’occasione monsignor Busti – qui in un battibaleno si è storpiata fino a diventare un pericolo mortale dal quale fuggire. Non puoi più rientrare per rimanerci, pranzare o cenare, dormire e risvegliarti al mattino. Puoi ritornarci un momento, se proprio indispensabile, per raccattare il necessario e fuori ancora di corsa, in un luogo non tuo, forzatamente privo di intimità».
Casa come focolare, luogo di intimità, ma non chiuso all’esterno, blindato, bensì come porta aperta sui bisogni dell’altro. Già, perché la casa è, per definizione, espressione di un rapporto: non nella logica del “due cuori e una capanna”, bensì di “ponte” sull’esterno. Perché non c’è casa senza relazioni.
«La “casa” in molte lingue non è soltanto l’edificio di mattoni, di pietra e di cemento o la capanna o la tenda in cui si dimora, ma è anche chi vi abita, è il “casato” fatto di persone vive e di generazioni», spiegava Ravasi. E aggiungeva: «Anzi, talora la “casa” per eccellenza è persino il tempio, residenza terrestre di Dio. Suggestivo, al riguardo, è il rimando di allusioni che regge l’oracolo del profeta Natan: al re Davide che vuole erigere una “casa” (bajit) al Signore, ossia un tempio in Gerusalemme, Dio replica affermando che sarà lui stesso a edificare per il re una “casa” (bajit), una discendenza familiare, quindi un “casato” che aprirà una storia destinata ad approdare al Messia».
Al solito, Dio si mostra infinitamente più generoso dell’uomo e con orizzonti ben più ampi dei suoi: a noi uomini che cerchiamo una casa per vivere e un casato per perpetuarci nel tempo, Dio offre una casa senza muri e l’appartenenza a un popolo, la Chiesa-famiglia dei credenti.
(4. fine)