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La testimonianza di un prete operaio MORTI BIANCHE DI IERI E DI OGGI

9 Ottobre 2007

Il seguente brano è tratto dal «Diario di fabbrica di un prete operaio (1968-1970)». Il sacerdote racconta due morti sul lavoro capitate a brevissima distanza da lui, con spirito documentario e crudezza estrema. Per arrivare a concludere che la vita va avanti, il sistema pure e che, in fondo, tutti gli incidenti sono alla fine imputati all’incuria dell’operaio.

di Luisito Bianchi

19 febbraio 1968. Alle due sto avviandomi all’uscita del reparto. Ci fermiamo un attimo per le consegne all’operaio del turno successivo quando sentiamo uno scoppio violento. Ci rifugiamo ai pilastri mentre molti vetri si spezzettano e cadono. Usciamo.

A poche decine di metri dal reparto è scoppiato un deposito di nafta. Il coperchio di più di 4 metri di diametro è volato a 200 metri di distanza. Altri operai accorrono. C’è già sul posto il direttore. Ci sono vittime? Non sappiamo. Trovo una scarpa, a distanza di qualche metro se ne trova un’altra. Comincia la ricerca dell’eventuale vittima.

Gli addetti alla sicurezza scorazzano di qua e di là; non sanno che fare. Si guarda sui tetti dei capannoni, fra i macchinari dei forni; niente. Mi fermo un poco; un prete può essere utile in queste circostanze. Ma non si trova nulla. Mi avvio all’uscita dando un’assoluzione ai quattro venti perché abbia a ricadere sull’eventuale vittima.

Ieri ho saputo i particolari. Il corpo d’un giovane di 27 anni è stato trovato alle 17.30 nella cisterna, sommerso dalla nafta. Si parla dell’incidente sul lavoro. È domenica. Il ritmo è rallentato. C’è tempo. Il capo si mostra piuttosto soddisfatto perché l’incidente è stato minimo in rapporto a quanto poteva succedere. E poi l’operaio ucciso non appartiene alla Montecatini, ma a una ditta appaltatrice.

1 febbraio 1970. La fabbrica, ieri sera, era già piena della notizia dell’incidente, forse mortale, capitato a un camionista che stava scaricando acido solforico al reparto titanio nero, appena sotto al mio. È stata una grave imprudenza di questo giovane, che ha voluto mettere mano al boccaporto dell’autocisterna mentre si stava immettendo aria compressa per lo scarico. Il boccaporto, non appena il giovane vi pose le mani sopra per assicurarlo, schizzò via come un fuscello colpendo testa e petto del camionista, che fu buttato a terra lontano, investito anche da uno schizzo di acido. Per regolamento i camionisti devono stare lontani dal luogo dello scarico, essendo questa operazione tassativamente riservata all’operaio addetto.

Ieri era di turno Grassano, detto il Magrone, una quarantina d’anni, uno scheletro che si muove e un sorriso di cucciolo bastonato. Anche lui aveva commesso un’imprudenza: si era allontanato per cercare, sembra, del nastro isolante senza chiudere l’aria. Dopo l’incidente, prima delle 8, si cerca da ogni parte Grassano. Si teme per lui. Ma egli si era nascosto, rimanendo chissà dove per quattro ore. Non si sa che fine abbia fatto il giovane camionista; l’hanno portato al centro di rianimazione di Torino in condizioni disperate.

Così, non termina il mio secondo anno di fabbrica che un secondo incidente, anche stavolta forse mortale, si è prodotto appena fuori dal mio reparto. Un altro contributo di sangue alla dea produzione. Il capoturno di stanotte, l’addetto alla sicurezza più pignolo che esista in fabbrica, può dire ovunque: «Anche a costo di seccare la gente, ma io debbo avvertire quando si agisce con imprudenza. Quando capita è già tardi. Non capita mai niente, dicono; ma vedete, anche stamattina un operaio ci ha rimesso le penne». E non cela il suo orgoglioso soddisfacimento per la sua opera vigilante.

Non c’è nessuno in reparto che non abbia a raccontarmi casi di incidenti visti nei lunghi anni di lavoro: le bruciature degli acidi (dove passa è come il fuoco, brucia); la pericolosità dell’HF, un acido che, dicono, va alle ossa e continua a corrodere provocando amputazioni; i soffi dei vapori ustionanti: e sono nomi di operai mai conosciuti, ma tramandati di bocca in bocca come se fossero incisi su una lapide. Ci vorrebbe un poeta per immortalarli; ma i loro nomi sono già iscritti nel Verbo fatto carne.

2 febbraio 1970. Si è diffusa stamattina la notizia che il giovane camionista è morto. Il commento è che sia meglio così. Chi l’ha visto portar via in barella descrive un volto mangiato dall’acido. Dicono anche che non funzionasse la doccia d’emergenza, vicino al luogo dello scarico dell’acido; se è vero, la direzione della fabbrica non può sottrarsi alle sue responsabilità. Chi portava la barella dalla parte posteriore fu dovuto soccorrere, tanto era il gas dell’acido che saliva dalle membra bruciate del giovane. Così, per il sacrificio, c’era anche il fumo dei… profumi: il braciere era una faccia d’uomo.

Ma altri camion stamattina scaricavano acido; e domani ancora. La vita continua, il sistema continua. E si dirà in conclusione che la colpa fu del giovane, perché non doveva, per regolamento, avvicinarsi nemmeno al boccaporto dell’autocisterna. Ma nessuno si domanderà o chiederà perché si è avvicinato. Il perché della sua fretta, il perché scaricava a quell’ora, se aveva passato la notte alla guida e perché. Se il padrone del camion non c’entra in tutta questa faccenda, e non solo perché metteva in circolazione un camion con un boccaporto difettoso.

Poste certe premesse, queste domande sono inutili: viaggiare di notte è il mestiere del camionista; fare il maggior numero possibile di viaggi è una necessità per rendere economica un’impresa di trasporti; la doccia d’emergenza può anche essere non richiesta dalle norme di sicurezza. Insomma, l’operaio avrà sempre torto.