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Liturgia

La resurrezione di Lazzaro

Marta ascoltando Gesù va oltre, comprende che Egli non elimina la morte, la vince mediante il dono della “vita eterna”. Il pianto di Maria lo commuove, e a sua volta, piange, profondamente turbato

di Luigi NASON

22 Marzo 2012

La resurrezione di Lazzaro, il settimo “segno” scelto dall’autore del Quarto Vangelo tra i molti compiuti da Gesù, rappresenta una cerniera tra il “libro dei segni” (1,19-12,50) e il “libro della gloria”, in cui la passione e l’innalzamento (l’esaltazione) della croce sono visti come il momento culminante della manifestazione della gloria di Dio in Gesù (13,1-20,31).

Gesù, pur amando Lazzaro, si limita a dire che la sua malattia è per la gloria di Dio e lascia passare due giorni prima di mettersi in cammino verso Betania. Sa di esporsi così a un pericolo mortale, come fanno notare i discepoli, ma spiega che l’amico si è addormentato e lui deve svegliarlo. I discepoli confondono la morte con il sonno – è il tipico fraintendimento giovanneo – ma poi si rendono disponibili, provocati dalle parole di Gesù: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate». Tommaso risponde con coraggiosa irruenza: «Andiamo anche noi a morire con lui». A Betania Gesù va al sepolcro: è venuto a scontrarsi con la morte e il luogo non può essere che il sepolcro. Marta gli va incontro e dà voce all’acuto senso di impotenza e di assenza di Dio che ciascuno prova di fronte alla morte: «Signore, se tu fossi stato qui…». Marta sa che Lazzaro risorgerà nell’ultimo giorno ma, ascoltando Gesù, va oltre, scopre che lui è «la resurrezione e la vita».

Allora «io so» diventa «io credo»: ha compreso che Gesù non elimina la morte, la vince mediante il dono della «vita eterna» che non viene meno persino di fronte alla morte. Il pianto di Maria commuove Gesù che, a sua volta, piange, profondamente turbato: non a caso Giovanni usa il verbo che utilizzerà per indicare il turbamento di Gesù dinnanzi alla propria morte (12,27) e al tradimento di Giuda (13,21). Gesù è di fronte non solo alla morte dell’amico, ma anche alla sua, ormai imminente. L’ordine di togliere la pietra è seguito dalla preghiera di Gesù, un rendimento di grazie che non ha parallelo in nessun altro passo evangelico: solo qui Gesù prega prima di compiere uno dei segni. La scena culmina nel grido di Gesù e in Lazzaro che esce dal sepolcro e torna a vivere: il suo silenzio però perdura e pone in risalto solo Gesù, la sua vittoria sulla morte dell’amico, «segno» della vittoria sulla propria morte e su quella di chi crede in lui.

La resurrezione di Lazzaro mette in moto il processo che condurrà Gesù alla croce e rende evidente che Gesù dona la vita a prezzo della sua stessa vita. È quanto dobbiamo annunciare ogni giorno, testimoniando la fedeltà di Dio che ha fatto uscire Israele dall’Egitto e che chiede – è l’invito della prima lettura – di «mettere in pratica» ciò che ci ha insegnato «così da essere sempre felici ed essere conservati in vita» (Dt 6,24).

«Tu amerai il Signore con il cuore, con l’anima e con tutte le forze»

Sono ancora i libri della Genesi e dei Proverbi a orientare l’itinerario quaresimale in questa settimana, tranne il lunedì in cui si celebra la solennità dell’Annunciazione del Signore. Le letture della Genesi offrono la conclusione dello stupendo romanzo di Giuseppe, figura biblica straordinaria, la cui storia avvincente si svolge in un contesto tipicamente secolare: in essa sono leggibili tanti aspetti della paternità, esigente eppure lungimirante e misericordiosa, del Dio di Israele, e tanti tratti del giusto che Gesù ha incarnato compiutamente fino alla morte di croce e alla risurrezione. Quando le parole di Giuda rivelano che i fratelli hanno ritrovato la fraternità perduta, Giuseppe può farsi riconoscere («io sono Giuseppe, il vostro fratello») e interpretare la storia in chiave teologica. Il «mi avete venduto» è in realtà una missione: «Dio mi ha mandato qui», «dunque non siete stati voi a mandarmi» (Gen 45,5-8). Una missione per la vita, per la sopravvivenza: i fratelli «vendono», non inviano; «Dio invia». Giuseppe non rimuove la colpa dei fratelli ma legge, nella trama intricata delle vicende, un disegno che misteriosamente si realizza: «Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso» (50,19-20).

Il libro dei Proverbi riassume l’ideale di chi è cresciuto alla scuola della sapienza: «Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: "Chi è il Signore?", oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e abusi del nome del mio Dio» (Pr 30,7-9). Nel poema che conclude il libro l’immagine della donna forte, laboriosa e generosa che «apre la bocca con saggezza» e la cui lingua «ha solo insegnamenti di bontà» (31,10-31) richiama ai figli d’Israele la Tôrah, sorgente inesauribile di sapienza.

I testi evangelici ci introducono al mistero del Figlio dell’uomo «consegnato ai pagani» secondo «tutto ciò che fu scritto dai profeti» (Lc 18,31-33), un evento annunciato ma oscuro per i Dodici: «Non capivano ciò che egli aveva detto». Suonano sconcertanti le parole di Gesù dopo la provocazione rivolta ai Dodici, «volete andarvene anche voi?», e la risposta di Pietro «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna…»: non tutti «hanno creduto e conosciuto» che egli è «il Santo di Dio»; infatti, «uno di voi è un diavolo!». Interviene il narratore: «Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici» (Gv 6,66-71). Ognuno, di fronte a Gesù, è posto davanti all’alternativa radicale tra fede e incredulità. La domanda di Gesù è molto più che libertà di scelta: è provocazione ad una più consapevole e forte decisione di fede. Perciò a Gerusalemme, nel contesto della festa delle Capanne (Gv 7,2), la presenza di Gesù suscita un irriducibile dissenso (7,43) tra chi vuole arrestarlo e chi dice: «Mai un uomo ha parlato così!» (7,46). Ognuno è invitato a non illudersi presuntuosamente trasformando la consapevolezza della propria elezione in un possesso sicuro. Chi mai può essere sicuro della propria fede? C’è sempre spazio anche per il tradimento della propria fede. E chi fa ciò, è un diavolo (cf R. Bultmann).

Nell’ultimo sabato quaresimale, in Traditione Symboli, la liturgia sottolinea il gesto catecumenale della consegna del «simbolo della fede» con l’antica professione che ha scandito da sempre la vita di Israele, che ha ritmato i giorni di Gesù e dei primi discepoli: Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4).

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