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29 maggio

La Regione premia don Roberto Davanzo

A Mantova, in occasione della festa della Lombardia, il presidente Roberto Maroni consegnerà la «Rosa Camuna» al prete ambrosiano che per 11 anni ha guidato la Caritas ambrosiana tra povertà ed emergenze in tempi di crisi

di Luisa BOVE

23 Maggio 2016

Non se l’aspettava, don Roberto Davanzo, di ricevere il Premio Rosa Camuna 2016 della Regione Lombardia. Tantomeno adesso che ha lasciato il suo incarico di direttore della Caritas Ambrosiana, diventando presidente dell’Istituto per il sostentamento del clero e parroco a Sesto San Giovanni. La cerimonia si svolgerà domenica 29 maggio alle 19, presso il Teatro Bibiena di Mantova (via Accademia 47), in occasione della festa della Lombardia.

Davanzo non conosce la motivazione del riconoscimento pubblico, ma attende «con curiosità» di capire: «Sono grato a chi ha pensato al mio nome e lo sento come un incoraggiamento a non disperdere tutto il patrimonio valoriale e di competenza che in questi anni ho maturato grazie alla Caritas».

Viene comunque da pensare che tanti anni di direzione alla macchina caritativa, forse più grande in Diocesi, l’abbia portata a questo riconoscimento, assegnato sempre per «impegno, operosità, creatività e ingegno»…
Sicuramente 11 anni di Caritas Ambrosiana sono stati per me un grande impegno e una grande opportunità, ma questo vale per qualsiasi ufficio legato alla Diocesi di Milano per le dimensioni stesse. Avere a che fare con 5 milioni di abitanti e 1100 parrocchie dice comunque che occorre cimentarsi, anche soltanto dal punto di vista quantitativo, con una massa di situazioni e problemi, ma anche con opportunità, maturazione e approfondimento.

Gli impegni sul fronte delle povertà sono stati diversi, non solo sul territorio diocesano, ma anche all’estero, per calamità o campi di lavoro…
Certo, uno degli uffici più organizzati di Caritas Ambrosiana è proprio quello Internazionale, con le sue competenze specifiche e una serie di relazioni nate in questi decenni, anche a partire dalle situazioni di emergenza che abbiamo affrontato e fronteggiato. Inoltre l’ufficio Internazionale, attraverso i Cantieri della solidarietà, si è legato a una fetta significativa di mondo giovanile, offrendo la possibilità, senza la pretesa di risolvere alcun problema, di incontrare, condividere e conoscere le popolazioni di adulti e bambini in vari territori. C’è questo duplice polmone: quello della lotta alla povertà a casa nostra e là dove si generano situazioni di conflitto o di catastrofe naturale.

Come è cambiato nell’ultimo decennio il volto della povertà a Milano e in Lombardia?
Innanzitutto ho avuto la percezione che l’ente pubblico abbia amplificato il suo riferirsi al mondo Caritas. In questi anni abbiamo fatto i conti con una riduzione di risorse e quindi con la necessità da parte dei comuni di dover intervenire, chiedendo maggiormente aiuto ai nostri mondi. Secondo, non possiamo dimenticare la crisi del 2008 che ci ha chiesto di fare un salto di qualità significativo nelle nostre progettualità perché ha toccato segmenti di popolazione che mai avrebbero immaginato di aver bisogno di aiuto. Terzo, il fenomeno migratorio, quindi dei profughi, che in questi ultimi anni, a partire dal 2011 in particolare, ci ha visti fortemente coinvolti nella ricerca di strutture di ospitalità da gestire con saggezza e senza logiche di lucro. Purtroppo alcune realtà e cooperative sociali, quando hanno fiutato la possibilità di un affare dietro a questa situazione, si sono improvvisate buttandosi a pesce, senza la competenze e la serietà necessaria a garantire una serie di prestazioni, in assenza delle quali la sicurezza dei cittadini italiani viene messa alla prova.

Che cosa ha imparato mettendosi al servizio degli ultimi, seppure da regista?
Un’idea di sacerdote con antenne decisamente più affinate rispetto a quanto non avessi potuto maturare negli anni precedenti. Ho maturato una fisionomia sacerdotale, un mio modo di vivere la vocazione, con una serie di sensibilità che certamente non possedevo 11 anni fa. In seconda battuta una significativa esperienza di collaborazione con il laicato: il mondo della carità è un mondo nel quale noi sacerdoti dobbiamo avere l’umiltà di non pretendere di essere degli apprendisti stregoni. Non si può affrontare la questione delle povertà semplicemente come se fossimo un piccolo bancomat, distribuendo qualche mancia qua e là. La povertà va affrontata con competenze e tempi da investire di cui noi sacerdoti non disponiamo, da qui la necessità di organizzarsi con laici preparati e capaci di scandagliare meglio e più approfonditamente le infinite situazioni di bisogno, anche distinguendo quelle vere da quelle un po’ farlocche.